Maynard Keynes

 

Economic Possibilities

 

for our Grandchildren.

 

Conferen­za tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930.

Ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991).

 

 

 

I

 

In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l’epoca dell’enorme progresso eco­nomico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del teno­re di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.

Ritengo che questa sia un’interpretazione estremamente errata di quanto sta accadendo. Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi. e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera; il miglioramento

del livello di vita è stato un po’ troppo rapido; il sistema bancario e monetario del mondo ha impedito che il tasso d’interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio. Ciò nonostante lo spreco e la confusione che ne conseguono investono non più del 7,5 per cento del reddito nazionale; buttiamo via uno scellino e 6 pence per ogni sterlina, e rima­niamo con 18 scellini e 6 pence dove, se fossimo più intelligenti, potremmo avere una sterlina intera; con tutto ciò i 18 scellini e 6 pence valgono quanto valeva una sterlina cinque o sei anni fa. Noi dimentichiamo che nel 1929 il volume della produzione dell’industria britannica era superiore a quello di qualsiasi momento precedente e che lo scorso anno l’attivo netto della bilancia dei pagamenti, disponibile per nuovi investimenti all’estero, dopo aver pagato tutte le importazioni, era superiore a quello di tutti gli altri paesi, superando perfino del 50 per cento l’attivo corrispettivo degli Stati Uniti. Ovvero, se si vuole farne una questione di raffronti, supponiamo di dover ridurre a metà i nostri salari, denunciare quattro quinti del debito nazionale, e accumulare l’eccedenza in oro puro anziché darla a prestito al 6 o più per cento: ci troveremmo in posizione simile alla tanto invidiata Francia. Ma migliorerebbe qualche cosa?

La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento;  e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che lequilibrio della nostra vita economi­ca e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.

In questo saggio, tuttavia, mio scopo non è di esaminare il presente o il futuro immediato, ma di sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel futuro. Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d’anni? Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?

Dai tempi più remoti dl cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo) fino all’inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all’incirca nell’anno di grazia 1700, alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del casi del 100 per cento) rispetto ad altri.

Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due motivi: l’assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo, e la mancata accumulazione di capitale.

L’assenza di grandi invenzioni tecniche fra l’era preistorica e i tempi relativamente moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo possedeva all’inizio dell’età moderna, era già noto all’uomo agli albori della sto­ria. Il linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l’orzo, la vite e l’olivo, l’aratro. la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte, l’oro e l’argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a C.), il sistema bancario, l’arte del governo, la matematica, l’astronomia e la religione: non sappiamo quando l’uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose.

In una certa epoca, anteriore all’inizio della storia, forse durante uno di quei favorevoli intervalli che hanno preceduto l’ultima epoca glaciale, deve essere esistita un’era di progresso e di invenzioni paragonabile a quella in cui viviamo oggi. Ma per la maggior parte della storia vera e propria non si è avuto nulla del genere.

L’età moderna si è aperta, ritengo, con l’accumulazione di capitale iniziata nel secolo XVI. Io credo che ciò, per ragioni con cui non devo gravare questa trattazione, sia stato dovuto inizialmente all’aumento del prezzi (e ai profitti conseguenti) determinato dal tesori d’oro e d’argento che la Spagna portò dal Nuovo Mondo in quello Vecchio. Da allora a oggi il processo di accumulazione secondo l’interesse composto, che sembrava in letargo da tante generazioni, ebbe nuova vita e assunse nuove forze. E la portata di un interesse composto per un periodo di più di due secoli è tale da far vacillare la fantasia. Permettetemi di citare un esempio, da me elaborato, a illustrazione dell’entità di questa capitalizzazione. Il valore degli investimenti all’estero della Gran Bretagna è stimato, oggi, circa 4 miliardi di sterline, e fornisce un reddito annuo al tasso di circa 116,5 per cento. Questo reddito per metà lo fac­ciamo rimpatriare e lo godiamo; l’altra metà, vale a dire il 3,25 per cento, lasciamo che si accumuli all’estero con l’interesse composto. Qualche cosa del genere è accaduto ininter­rottamente per circa 250 anni.

Io, infatti, riconduco l’inizio degli investimenti inglesi all’estero al tesoro che Drake sot­trasse alla Spagna nel 1580, anno appunto in cui rientrò in Inghilterra portando con sé le spoglie meravigliose del Golden Hind. La regina Elisabetta era una forte azionista del gruppo che aveva finanziato la spedizione. Con la sua quota del tesoro la regina pagò tutto il debito estero del paese, riportò in pari il bilancio e si ritrovò in mano ancora 40mila sterline. Questa fu appunto la somma che investì nella Levant Company, la quale prosperò. Con i profitti della Levant Company fu fondata la East India Company, e i profitti di questa grande impresa costituiscono la base dei successivi investimenti all’estero della Gran Bretagna. Ora, si dà il caso che la capitalizzazione di 40mila sterline al tasso di interesse composto del 3,25 per cento corrisponda approssimativamente al volume reale degli investimenti all’estero della Gran Bretagna in date diverse, e ammonterebbe effettivamente alla somma complessiva di 4 miliardi di sterline che ho già citata come volume attuale dei nostri investimenti all’estero. Pertanto, ciascuna delle sterline che Drake portò in patria nel 1580 si è trasformata in 100mila sterline. Tanta è la potenza dell’interesse composto!

Dal secolo XVI è incominciata, proseguendo con crescendo ininterrotto nel XVIII seco­lo, la grande era delle invenzioni scientifiche e tecniche che, dall’inizio del secolo XIX, ha avuto sviluppi incredibili: carbone, vapore, elettricità, petrolio, acciaio, gomma, cotone, industrie chimiche, macchine automatiche e sistemi di produzione di massa, telegrafo, stampa, Newton, Darwin, Einstein e migliaia di altre cose e uomini troppo famosi e troppo noti per essere ricordati. Quale il risultato? Nonostante l’enorme sviluppo della popolazione del mondo, che è stato necessario dotare di case e di macchine, il tenore medio di vita in Europa e negli Stati Uniti è aumentato, devo ritenere di quattro volte. Lo sviluppo del capitale è avvenuto su una scala di gran lunga superiore a cento volte quella conosciuta da qualsiasi altra epoca. E d’ora in avanti non dobbiamo attenderci un incre­mento demografico tanto forte.

Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l’anno, in vent’anni l’attrezzatura produtti­va del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cent’anni di sette volte e mezzo. Pensate a questo in termini di beni capitali: case, trasporti e simili.

Al tempo stesso i miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proce­duti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente dalla Storia. Negli Stati Uniti la produzione pro capite dell’industria, nel 1925, superava del 40 per cento quella del 1919. In Europa ostacoli contingenti ci hanno intralciato il cammino; pur tuttavia è lecito dire che il rendimento tecnico sta aumentando con ritmo superiore al tasso composto dell’1 per cento l’anno. Vi sono buoni elementi per ritenere che le rivolu­zionarie trasformazioni tecniche, che finora hanno interessato soprattutto l’industria, si applicheranno presto all’agricoltura. Può ben darsi che ci troviamo alla vigilia di un’evoluzione del rendimento della produzione agricola di portata analoga a quella verificatasi nell’estrazione mineraria, nell’industria manifatturiera, nel trasporti. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi.

 

Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcu­ni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccu­pazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa mano­dopera. Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori.

 

 

 

II

 

Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent’anni la situazione economica di tutti  noi sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo affatto stupirci.

È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfat­ti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici.

Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.

Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografi­ci eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.

Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive.

 

Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale.

Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abi­tudini e istinti nell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni.

Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un “collasso nervoso” generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità eco­nomica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente.

Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino  momento in cui l'ottiene.

Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:

Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l’eternità.

Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore. C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:

Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.

Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!

Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagna­to, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.

Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza, quando verrà.

Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a fati­care anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale. A giudicare dalla condotta e dal risul­tati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il proble­ma che era in gioco.

Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.

Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avre­mo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limi­tati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di que­sto “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.

Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ric­chezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di asse­gnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L'amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà rico­nosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quan­to di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumula­zione del capitale.

Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di lodarle e di incoraggiarle perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo “impegno” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi. “Impegno” infatti, significa preoccuparsi dei risultati futuri delle proprie azioni più che della loro qualità o del loro effetto immediato nel nostro ambiente. L’uomo “impegnato” tenta sempre di assicurare alle sue azioni un’immortalità spuria e illusoria, proiettando nel futuro l’interesse che vi ripone. Non ama il suo gatto, ma ne ama i gattini, o per la verità neppure i gattini, ma i figli di quei gattini e tutta la loro generazione fino a che esisterà la stirpe dei gatti. Per costui la marmellata non è marmellata a meno che non si tratti della marmellata di domani, mai della marmellata di oggi. E così proiettando nel futuro la sua marmellata tenta di assicurate l’immortalità al lavoro con cui la prepara.

Permettetemi di ricordare qui il professore di Sylvie and Bruno:

 

“È solo il sarto, sir, con il suo conticino” disse una voce querula fuori dell’uscio.

“Oh, bene” disse il professore ai bambini. “Risolverò subito questa sua faccenda, se vor­rete aspettare un momento. Quant’è quest’anno buonuomo?” Mentre parlava il sarto era entrato.

“Vedete, è stato raddoppiato per tanti anni” replicò il sarto un po’ brusco “che adesso penso proprio di volere i quattrini. Sono duemila sterline, sono!”

“Roba da nulla”, osservò noncurante il professore frugandosi nelle tasche come se si por­tasse sempre dietro quella cifra come minimo. “Ma non preferireste aspettare ancora un anno e farle diventare quattromila sterline? Pensate solo a quanto diventereste ricco! Pensate, potreste diventare un re, se lo voleste!”

“Non so se mi interessi diventare un re” commentò pensieroso l’uomo. “Ma sembra dav­vero un mucchio di quattrini... Beh, credo che aspetterò....”

“Certo che aspetterete” incalzò il professore. “Vedo che avete cervello. Buongiorno, buo­nuomo!”

Non appena la porta si richiuse alle spalle del creditore Sylvie chiese: “Gliele pagherete mai quelle quattromila sterline?”

“Mai ragazza mia” replicò enfatico il professore. “Preferirà raddoppiare fino ai giorno della morte. Vedete, vale sempre la pena di aspettare ancora un anno per avere il doppio!”

 

Forse non è un caso che la razza che più ha fatto per radicare la promessa di immortalità nel cuore e nella natura delle nostre religioni, è anche quella che più di ogni altra ha fatto per il principio dell’interesse composto e che predilige in particolare questa che è la più impegnata delle istituzioni umane.

Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.

Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo fin­gere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.

Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai sì sia verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita degli esseri umani come aggregato. Ma, naturalmente, tutto avverrà per gradi, non come una catastrofe. Tutto, anzi, è già incominciato. Le cose andranno semplicemente così: sempre più vaste diventeranno le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica. Ci si renderà conto della differenza critica quando questa condizione si sarà a tal punto generalizzata da mutare la natura del dovere delluomo verso il suo simile: infatti l’impegno del fare verso gli altri continuerà ad avere una ragione anche quando avrà cessato di averla il fare a nostro vantaggio.

Il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica, dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra deter­minazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla scienza la direzione delle questioni che sono di sua stretta pertinenza, e il tasso di accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.

In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle attività che definiamo oggi “impegnate”.

Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli econo­misti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sui piano del dentisti, sarebbe meraviglioso.

 

 


 

La rivincita parziale di Keynes

di Domenico De Masi

 

 

Qualche anno fa la disoccupazione in Italia aveva superato il 14% ed io, in un volume intitolato Il futuro del lavoro (Rizzoli), proposi di sperimentare una riduzione calibrata dell’orario sulla scorta di quanto aveva fatto la Volkswagen in Germania. I tempi non erano maturi e quella proposta fu aspramente criticata. Qualche commentatore particolarmente ameno arrivò ad addebitarla alla mia origine meridionale, dunque incline alla pigrizia. In realtà mi ero limitato a riprendere una proposta avanzata da John Maynard Keynes nel 1930.

Oggi la disoccupazione è al 8% e, sotto la sferza della crisi, rischia di veleggiare verso l’10%: una percentuale comunque ben lontana dai picchi raggiunti qualche anno fa. Però l’atteggiamento verso il tipo di interventi a favore dell’occupazione è cambiato e da più parti riemerge l’idea di ridurre l’orario di lavoro. Ciò che ieri non riuscì ad ottenere il 14%, oggi riesce ad ottenerlo l’8%.

E’ la rivincita parziale di Keynes. Parziale perché il rimedio cui oggi si vorrebbe ricorrere è identico a quello da lui proposto ieri; ma la causa cui si attribuisce oggi l’aumento della disoccupazione da arginare (cioè la crisi galoppante ma transitoria) è affatto diversa dalla causa che indicò a suo tempo il grande economista inglese (cioè il progresso tecnologico galoppante e interminabile). Chi oggi propone la riduzione dell’orario di lavoro, pensa a un rimedio estremo e transitorio per un male estremo e  transitorio come la crisi finanziaria. Keynes, invece, pensava alla riduzione dell’orario di lavoro come all’effetto benefico e crescente di un  fenomeno positivo e irreversibile come il progresso scientifico-tecnologico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

 

Il progresso è visto da Keynes come un lungo itinerario dell'umanità verso l'intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dalla fatica intellettuale poi. Dalle origini della nostra storia fino al Medioevo, l’uomo è riuscito a realizzare la propria liberazione dalla schiavitù; dal Medioevo alla prima metà del Novecento ha realizzato la sua liberazione dalla fatica; dalla seconda guerra mondiale ad oggi, finalmente si avvicina alla liberazione dal lavoro tout court.

Se si va indietro nel tempo, si trova che  presso i Greci liberi dominava il massimo disprezzo per il lavoro dipendente e per qualsiasi attività che comportasse fatica fisica o, comunque, attività esecutiva. Secondo Aristotele e Platone, qualsiasi produzione di oggetti materiali – fossero anche opere d'arte come le statue di Prassitele – rappresentava un'attività di secondo ordine rispetto alla produzione di idee.

 Nel V secolo Atene contava 40.000 cittadini maschi liberi che si dedicavano quasi totalmente alla politica e allo studio. Per il resto, delegavano tutto il lavoro pratico alle donne in casa, ai 20.000 meteci nei mercati, ai 300.000 schiavi stanziati sul territorio e nelle miniere di Lario. Intanto, vagheggiavano mondi futuribili, dei ed eroi dotati di robot. "Se ogni strumento – favoleggia Aristotele – potesse, a un ordine dato, lavorare da se stesso, se le spolette tessessero da sole, se l'archetto suonasse da solo sulla cetra, gli imprenditori potrebbero fare a meno degli operai e i padroni degli schiavi".

Ma la tecnologia non fornì ai Greci e ai Romani alcun pratico supporto a queste utopie e quasi tutto ciò che vi era da fare per la vita di ogni giorno, in Grecia come a Roma, veniva affidato alla cura dei meteci e alla fatica degli schiavi. Le case ricche impiegavano anche 1.000 schiavi; un ateniese medio ne aveva una diecina; non possedere neppure uno schiavo era segno di estrema indigenza. In casa gli schiavi provvedevano alla portineria, alla cucina, alla macina del grano, alla sorveglianza e alla cura dei bambini, alla pulizia, alla tessitura. In città provvedevano all'igiene e all'ordine pubblico ma anche all'amministrazione e alla zecca.

 

Quanto all'Italia, si stima che, alla fine del I secolo a.C. gli schiavi fossero due milioni, su una popolazione totale di 6 milioni. Nell'epoca imperiale, tra il 50 a. C e il 150 d.C., nei territori romani gli schiavi erano diventati 10 milioni su una popolazione totale di 50 milioni. A Roma i benestanti possedevano dozzine di schiavi e i senatori più ricchi arrivavano ad averne molte centinaia.   Dall'infanzia alla morte i romani liberi erano circondati, serviti, mantenuti dal lavoro degli schiavi: nella coltivazione della terra, nelle miniere, negli opifici, nei lavori domestici, nei pubblici esercizi, nell'allattamento, nelle prestazioni sessuali.

Solo quando, intorno al X secolo dopo Cristo, i proprietari vi furono costretti dalla scarsità di bestiame umano e di bestiame animale, si decisero a impiegare la possente forza inorganica del mulino ad acqua, che avrebbe risparmiato a migliaia di uomini una fatica massacrante. Insieme al mulino ad acqua per il grano furono riesumati, inventati, reinventati e diffusi il mulino per la concia e per la follatura, le seghe idrauliche, i magli da officina, la ferratura delle bestie da soma, l'attaccatura in fila delle bestie da tiro, la bardatura moderna dei cavalli, la staffa, la rotazione triennale delle colture. E poi, via via, l'arcolaio, la polvere da sparo, la bussola, la stampa: tutte invenzioni che, in un primo momento, supplirono alla carenza di manodopera e, in un secondo momento, diffuse oltre il previsto, ne determinarono l'esuberanza.

Se a tutte queste invenzioni si aggiunge quella degli occhiali e dell'orologio meccanico, si comprende come siano stati proprio i "secoli bui" del Medioevo a gettare una prima luce sulla condizione umana del lavoro. Parte da essi, infatti, quella spinta all'innovazione tecnologica che troverà nell'Illuminismo la concettualizzazione sistematica e nella rivoluzione industriale la realizzazione concreta su vasto raggio.

 

Come alla fine del Medioevo la scarsità di schiavi e l'esigenza di lavoratori motivati portò all'adozione di nuove tecnologie e alla nascita del modo di produzione proto-industriale, così alla fine del Settecento, soprattutto in Inghilterra, la scarsità di proletari e l'esigenza di dipendenti più motivati portò alla meccanizzazione della filatura e della tessitura, con la nascita del modo di produzione industriale. La meccanizzazione e la centralizzazione ne costituiscono il cuore, l'organizzazione scientifica ne costituisce la mente. Alla base di tutto resta, comunque, il perenne desiderio umano di una migliore qualità della vita ottenuta con sempre meno lavoro.

Con l'industria moderna, l'uomo compie un ulteriore, importantissimo passo verso il sogno di Aristotele: ottimizzare, fino ad annullarlo del tutto, il denominatore contenuto nella formula della produttività P/H (cioè, quantità di prodotto divisa per il tempo-uomo necessario a produrla). Quando, nella fabbrica completamente robottizzata, sarà possibile produrre beni senza che neppure un'ora di lavoro umano intervenga nel ciclo produttivo, allora il sogno ancestrale sarà realizzato anche se, per ironia della sorte, gli uomini lo vivranno non come liberazione dal lavoro ma come minaccia all’occupazione.

Durante tutta la lunga storia che precede l'avvento dell’industria, le risorse energetiche di cui disponeva l'umanità non hanno mai superato il miliardo di megawattore; tra la metà dell'Ottocento e la metà del Novecento, grazie all'impulso industriale, sono aumentate di oltre cinquanta volte, superando i 53 miliardi di megawattore. Intanto, l'ausilio della tecnica ha permesso di sottrarre fatica non solo al lavoro industriale, ma anche al lavoro domestico: Hyamon G.Rickover (in Prospect for the Rest of Century) ha calcolato che, se prima occorrevano 20 uomini per sostituire la forza muscolare di un cavallo, oggi i moderni elettrodomestici forniscono a ciascuna casalinga un aiuto paragonabile a quello che in Grecia si otteneva da 33 schiavi; l'energia di cui dispone ciascun operaio nel suo lavoro di fabbrica equivale alla forza di 244 schiavi; un'automobile di media cilindrata sviluppa la forza di 1000 schiavi. Così facendo, "nel corso di una sola generazione – ha scritto W.Mills – un sesto dell'umanità è passato da uno stato feudale e arretrato alla più progredita e temibile modernità".

Ma la riduzione del lavoro umano per produrre beni e servizi (la riduzione, cioè, di H nel rapporto P/H con cui si misura la produttività) non deriva solo dall'innovazione tecnologica, bensì anche dall'innovazione organizzativa. Nei suoi scritti, Frederick W.Taylor (1856-1915), padre dell'organizzazione scientifica del lavoro, fornisce vari esempi eloquenti di questo benefico effetto. In sintesi, nei trent'anni in cui applicò un poco ovunque i suoi principi, egli ottenne il raddoppio di rendimento da parte di almeno 50.000 lavoratori.

Se Taylor, impiegando macchine e metodi che oggi considereremmo rudimentali, riuscì ad ottenere da 35 persone che lavoravano 8,30 ore al giorno, la stessa mole di lavoro prima effettuata da 120 persone che lavoravano 10 ore al giorno, c'è da chiedersi perché, dopo di lui, le aziende preferirono ridurre il personale (creando superlavoro per pochi e disoccupazione per molti) anziché ridurre l'orario. Con caparbietà autolesionista, invece di por mano a profonde riorganizzazioni mirate alla riduzione drastica degli orari di lavoro e alla rapida destrutturazione spazio-temporale dell'impresa, le aziende hanno preferito ignorare queste opportunità rivoluzionarie e si sono gingillate con contratti collettivi tanto astrusi quanto privi di mordente.

 

Mentre i capi del personale e i sindacalisti hanno sprecato il meglio di sé arzigogolando strambe composizioni dell'orario di lavoro (una raffineria siciliana della Esso è arrivata a prevedere l'inizio giornaliero del lavoro alle 7,43 e la fine alle 16,51), nella quasi totalità delle aziende vige tuttora una mistica quantitativa del lavoro per cui un dipendente è tanto più apprezzato quante più ore serali di straordinario non retribuito immola alla megalomania del proprio capo; il quale, a sua volta, si costringe ogni pomeriggio ad inventarsi qualche nuova, urgente incombenza pur di trattenere i propri dipendenti oltre l'orario contrattato. Intanto i neo-assunti sono cinicamente iniziati a questa grande farsa attraverso la norma informale secondo cui la loro futura carriera dipende proprio dalla loro disponibilità ad allungare la permanenza quotidiana in azienda. Si innesca così un circolo vizioso per cui, quante più ore un impiegato resta in azienda, tanto più diventa estraneo alla famiglia e agli amici esterni; quanto più diventa estraneo alla famiglia e agli amici, tanto più si sente a suo agio solo tra le mura del proprio ufficio e tende a restarci più a lungo. Longanesi ironicamente parlava del solerte funzionario che tiene per tutta la vita il ritratto dei cinque figli sulla scrivania e che solo sul letto di morte viene a sapere che almeno tre non sono suoi.

In altri termini, l'organizzazione scientifica del lavoro, gestita in modo inumano e a scopi inumani, comporta che l'homo faber prevarichi sistematicamente l'homo cogitans e soprattutto l'homo ludens, moltiplicando, anziché ridurre, le cause dell'infelicità assunta come condizione "naturale" e persino come provvidenziale opportunità espiatoria degli esseri viventi.

 

Ma proprio quando il taylorismo era al suo massimo splendore, John Maynard Keynes, pur avendo teorizzato che per combattere la disoccupazione occorre elevare gli investimenti, seppe intuire per primo gli sbocchi della disoccupazione tecnologica e il rapporto che sarebbe stato necessario instaurare tra lavoro e tempo libero.

Secondo un proverbio popolare spagnolo, “hombre que trabaja pierde tiempo precioso". Non so se Keynes conoscesse questo proverbio, cert’è che scelse proprio la liberazione dal lavoro come tema per una conferen­za tenuta a Madrid nel giugno del 1930, rintracciabile ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion e tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991). Le idee portanti della conferenza dovevano maturare da tempo nella testa di Keynes e dovevano stargli particolarmente a cuore se, fin dal 1928, egli ne aveva fatto oggetto di numerosi discorsi tenuti qua e là, su invito di associazioni culturali come la Essay Society del Winchester College o il Political Economy Club di Cambridge.

Poiché le teorie keynesiane sono alla base della strategia tuttora invocata e praticata (di validità assai più dubbia oggi che ai suoi tempi) secondo cui la disoccupazione è un male che va combattuto riducendo le tasse e aumentando gli investimenti, è interessante riproporre la conferenza di Madrid, dove Keynes per primo anticipa i limiti di questa strategia.

Quando, nel 1930, Keynes tenne a Madrid la sua conferenza, non erano stati ancora inventa­ti il microscopio elettronico, l’elaboratore, il polietilene, il radar, le fibre artificiali, l’elicotte­ro, il motore a reazione, la fissione e il reattore  nucleare, il DDT, gli antibiotici, la penna a sfera, il rene artificiale, la bomba atomica, la plastica, il transistor, il videoregistratore, gli anticoncezionali, il laser, i circuiti integrati, le fibre al carbonio, le stazioni spaziali, la fecon­dazione artificiale, il compact disc, il fax, il robot, Internet, il telefono cellulare. Gli scienziati non sapevano ancora di che cosa è composto un atomo o come è strutturato il DNA. Gran parte degli oggetti che compongono il nostro attuale universo quotidiano –  forno a microonde, televisione, I-Pod, I-phon, Facebook, Wii - esulavano dall’esperienza personale del raffinato economista di Bloomsbury. Eppure il suo acume, umanistico e sociologico prima ancora che economico, riuscì a guidar­lo oltre i confini dell’economia.

Per quanto lontano dai successivi sviluppi, già nel 1930 il progresso tecnologico doveva apparire a Keynes come un fenomeno portentoso e rivoluzionario, destinato a crescere con il ritmo a valanga previsto dalla legge di Moore. Però i dati di fondo erano già ben chiari: l’uomo di Neanderthal - quando gli abitanti del pianeta non superavano 120 milioni - aveva una vita media di 29 anni e disponeva di circa 4000 calorie al giorno; nel 1750 - quando la popolazione complessiva del pianeta aveva raggiunto i 600 milioni - l’uomo pre-industriale dei paesi più ricchi aveva una vita media di 35 anni e disponeva di 24.000 calorie al giorno; oggi, che la rivoluzione industriale è ormai conclusa e che la società postindustriale ha preso il suo posto, gli abi­tanti del pianeta superano i 6 miliardi e ciascun abitante dei paesi ricchi vive in media 75 anni, disponendo di circa 300.000 calorie al giorno.

È su questo trend, già percepibile a suo tempo nelle sue linee di fondo, che l’acuta intelligenza di Keynes imposta il proprio ragionamento profetico. Keynes è nato nel 1883 ed è morto nel 1946. La sua conferenza è intitolata Economic Possibilities for our Grandchildren. I nipoti di chi è nato nel 1883 e parla nel 1930 corrispondono più o meno ai figli di chi, come me, è nato nel 1938 e scrive nel 2009.

 

Quali sono, dunque, le prospettive economiche per i nostri figli, secondo il parere di Keynes?

La sua conferenza apre con riflessioni che potrebbero essere ripetute alla lettera anche oggi: "In questo momento – egli scrive – siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. Ritengo che questa sia un’interpretazione estremamente errata di quanto sta accadendo".

Keynes ritiene opportuno sbarazzarsi delle previsioni a breve e medio termine per librarsi nel futuro e prospettare il livello di vita economica ragionevolmente probabile per i suoi nipoti e per i nostri figli. Anche lui, per anticipare il futuro, sente il bisogno di partire dal lontano passato. “Dai tempi più  remoti di cui abbiamo conoscenza (diciamo  duemila anni prima di Cristo) fino all’inizio del secolo III, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo non ha subito grandi mutamenti....Dal secolo XVI è incominciata, proseguendo con crescendo ininterrotto nel XVII secolo, la grande era delle invenzioni scientifiche e tecniche...nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco  della nostra vita, potremo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero  con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati  ad impegnarvi”.

Keynes, come Marx e come Taylor, è più citato che letto. Pochi, dunque, penserebbero che già nel 1930 egli potesse considerare la disoccupazione tecnologica come una fase transito­ria in vista della liberazione dal lavoro. Ecco,  invece, cosa egli scrive: “La disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.  Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti ciò significa che l’umani­tà sta procedendo alla soluzione del suo problema economico”.

In realtà, alla luce dell’attuale esperienza, le previsioni di Keynes risultano sbaglia­te: ma per difetto. Egli ipotizzava che, nei cento anni successivi alla sua conferenza, la situa­zione economica dei paesi civili sarebbe stata otto volte superiore a quella del 1930. Invece, grazie all’accelerazione impressa dalla seconda guerra mondiale, dalla globalizzazione, dallo sviluppo scientifico-tecnologico, dalla scolarizzazione e dai mass media, lo sviluppo è stato ben più accelerato.

Dopo aver distinto tra bisogni assoluti (esauribili) e bisogni relativi (inesauribili), Keynes prevede che ben presto saremo ampiamente in grado di soddisfare i bisogni assoluti e che, quindi, potremo finalmente dedicare le nostre energie a scopi non economici. Per farlo, occorre sostituire la “perizia nel lavoro" con la "perizia nella vita", attraverso tre tappe.

Nella prima tappa, di natura organizzativa, durante la quale il lavoro diminuirà drastica­mente senza ancora scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo. In una seconda tappa, di natu­ra culturale, preparata fin da subito, "per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si tro­verà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure eco­nomiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l'interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”. In una terza tappa, di natura etica, la mutazione del codice morale si sommerà alla mutazio­ne organizzativa e a quella culturale.

 

Come Taylor seppe vivere in piena coerenza con la sua utopia (liberare l‘uomo dal lavoro attraverso la tecnologia e lo Scientific Management), dedicandosi sempre meno alla professione di ingegnere e sempre più al giardinaggio e alla vita di relazioni, così Keynes seppe anticipare la realizzazione della sua utopia attraverso l’esperienza multidisciplinare e raffi­natissima del circolo di Bloomsbury (vivere esteticamente in virtù e saggezza, liberati dall’assillo del lavoro e del guadagno).

Il sodalizio con Vanessa e Clive Bell, con Virginia Woolf, con Wittgenstein, con Bertrand Russell, con Strachey, con Forster, costituisce infatti la mirabile anticipazione di una possibile società postindustriale, fondata sui bisogni radicali della cultura, dell’amicizia e dell’estetica, contrapposta al perbenismo rituale dell’Inghilterra vittoriana, tanto falsa quanto opulenta, e contrapposta alla morsa di efficien­tismo e consumismo in cui, per due secoli, si é trovato costretto l’uomo industriale.

Il circolo di Bloomsbury, di cui Keynes faceva parte, insieme alla Wiener Werkstätte di Vienna, alla Bauhaus di Berlino, alla Stazione Zoologica di Napoli, al Circolo matematico di Palermo, e poi al Cavendish di Cambridge, al gruppo raccolto intorno a Enrico Fermi in via Panisperna a Roma e a pochi altri cenacoli europei, tracciarono la via all’organizzazione dei knowled group creativi che, man mano, avrebbero preso il posto delle catene di montaggio, come ho cercato di dimostrare nel volume L’emozione e la Regola (Rizzoli).

 

In realtà nessuno può ormai negare che l'intreccio tra innovazione tecnologica e lavoro umano evolve storicamente in modo che occorra sempre meno lavoro fisico e persino intellettuale per costruire sempre più oggetti e per fornire sempre più servizi. In passato erano le aziende in crisi a ridurre il proprio personale; oggi licenziano anche le aziende di successo, perché possono permettersi le tecnologie più sofisticate e, quindi, più sostitutive di manodopera e mentedopera. Siamo anzi arrivati al punto in cui le quotazioni in borsa di un’impresa salgono nella misura in cui essa rinnova le tecnologie e licenzia il personale. In altri termini, non è vero che per ridurre la disoccupazione basta rilanciare gli investimenti: oggi, se un imprenditore ha più soldi a sua disposizione, non li investe assumendo uomini ma acquistando macchine.

Questo è sempre avvento, ma solo con l’automazione e con l’elettronica ha assunto un ritmo e un’intensità tali da non trovare altro sbocco se non la riduzione dell’orario almeno per i lavori esecutivi di natura quantitativa. In passato la manodopera esuberante in agricoltura è stata scaricata nell'industria (in Italia è scomparso l'80 % dei contadini nel giro di un secolo); la manodopera esuberante nell'industria è stata scaricata nei servizi (in Italia è scomparso il 20 % degli operai manifatturieri nel giro di un trentennio); la manodopera esuberante nei servizi è stata scaricata nel settore ICT (che, nei paesi avanzati, impiega ormai il 40 % della popolazione attiva). Oggi la tecnologia e l'organizzazione permettono ai settori di destinazione – ammesso che ancora se ne creino in un futuro prossimo –   l'assorbimento di un'aliquota di manodopera assai minore della massa liberata dai settori di provenienza. Se a ciò si aggiunge la crescita numerica della popolazione mondiale e il recente accesso al mercato del lavoro centrale sia da parte delle donne che ne erano state escluse dal maschismo industriale, sia da parte dei lavoratori del terzo mondo che ne erano stati esclusi dalla divisione imperialista del lavoro, si giunge alla facile previsione di un prossimo, tumultuoso incremento di disoccupazione che, da congiunturale, diventa strutturale e si avvia a rappresentare la situazione prevalente per i cittadini del Primo Mondo, così come lo è stato da sempre per i cittadini del Terzo Mondo.

 

Partendo da questi dati tanto incontrovertibili quanto rimossi, negli anni Settanta furono i sociologi francesi – e, tra essi, soprattutto André Gorz – a proporre l'attuazione delle idee di Keynes circa la drastica riduzione dell'orario di lavoro. Ma l'ondata giapponese, con il suo efficientismo iper-taylorista, travolse qualsiasi voce favorevole alla sostituzione del concetto di disoccupazione con il concetto di liberazione dal lavoro. Forse oggi è un bene per tutti che la disoccupazione abbia superato il 4% anche in Giappone, che persino una fabbrica di successo come la Fujitsu abbia licenziato migliaia di persone annunciando il congelamento delle assunzioni, che Takeshi Nagano, presidente dell'associazione imprenditoriale Nikkeiren abbia constatato l'inevitabilità della deindustrializzazione, che il Wall Street Journal abbia incitato i giapponesi a sgobbare meno e a godersi meglio la vita se vogliono salvare la propria bilancia dei pagamenti.

Solo dopo questo declino dell'ultimo mito di produttività iper-industriale, la grande stampa di informazione ha percepito che i licenziamenti non sono più appannaggio delle imprese in crisi e che occorre ormai scegliere tra un modello a bassa tecnologia e alta occupazione oppure un modello ad alta tecnologia e a liberazione dal lavoro. Ha scoperto, cioè, il Jobless Growth: lo sviluppo senza lavoro.

Rispetto alla liberazione dalla schiavitù, che caratterizzò il Medioevo e alla liberazione dalla fatica, che ha caratterizzato la società industriale, la liberazione dal lavoro, resa possibile dal Jobless Growth che caratterizza la società postindustriale, si profila con caratteristiche sue proprie. Delegato alle macchine quasi tutto il lavoro fisico e gran parte del lavoro intellettuale di tipo esecutivo, l'uomo conserverà il monopolio dell'attività creativa, che per sua natura ammette assai meno di quella industriale sia la divisione dei compiti, sia la scissione tra tempo di lavoro e tempo libero.

A differenza della disoccupazione, necessariamente vissuta con il dolore della miseria e dell'emarginazione,  la liberazione dal lavoro ammette forme di libera crescita: non solo una maggiore agiatezza diffusa, ma anche una maggiore autodeterminazione dei compiti, un'attività intellettuale più ricca di contenuti, maggiore importanza data all'estetica e alla qualità della vita, maggiore spazio per l'autorealizzazione soggettiva.

 

Oggi che le profezie di Keynes sono così vicine al loro compimento, solo in privato molti colletti bianchi sono disposti ad ammettere che i loro compiti quotidiani potrebbero essere svolti in una quantità di tempo infinitamente minore e che l'eccesso di permanenza in azienda ha come unico scopo, non dichiarato, quello di tenere compagnia al proprio capo.

In un testo del 1991, curato da Durand e Merrien (R.Sue, "Temps libre et production de la societé", in Sortie de siècle. La France en mutation a cura di J.P.Durand e F.X.Merrien, Vigot, Paris 1991) si riportavano i calcoli eseguiti dall'istituto Insee, secondo cui in Francia l'orario effettivo di lavoro in una giornata media corrispondeva a 2 ore e 31 minuti. Ma già nel 1977 il gruppo Adret, in un volume significativamente intitolato Travailler deux heures par jour, aveva scritto: "La vera difficoltà per la nostra società non è quella di ridurre il tempo dedicato al lavoro ma di non ridurlo: per raggiungere questo risultato occorre pagare (il meno possibile) un esercito di disoccupati; mantenere nelle aziende una rilevante manodopera eccedente...creare posti di lavoro quale che sia la loro reale utilità; compiere importanti ricerche per rendere più fragili i beni di consumo che invece non chiedono di meglio che durare a lungo; lanciare costose campagne pubblicitarie per convincere la gente ad acquistare cose di cui non ha alcun bisogno; fare in modo di tenere il più possibile fuori della vita professionale i giovani, le donne, i vecchi e così via".

 

Come rispondono i policy makers a questa grande, inedita opportunità? Se si esaminano le loro leggi e le loro esternazioni, se ne deduce che, in  materia di lavoro e di occupazione, essi versano in uno stato confusionale acuito dall’ignoranza e dalla presunzione. Sicché sfornano me e regolamenti contraddittori che finiscono per incrementare la confusione del mercato del lavoro attraverso la confusione dei loro paradigmi approssimativi e stereotipati.

Il concetto stesso di orario di lavoro è nato con la società industriale, centrata sulla produzione in serie di beni materiali, e ha trionfato con l’introduzione della catena di montaggio nel processo manifatturiero.

Nelle campagne pre-industriali, nell’agorà della polis greca, nelle cattedrali gotiche, nelle botteghe fiorentine, il mondo della precisione non aveva ancora soppiantato il mondo del pressappoco. E’ con quello che Le Goff  ha chiamato “tempo del mercante” che i minuti e i secondi hanno acquistano valore; è con l’avvento dell’industria che in tot minuti si fabbricano tot bulloni; è con la catena di montaggio che il lavoro può iniziare simultaneamente, solo quando tutti sono al loro posto, e deve finire simultaneamente, quando il nastro trasportatore si blocca per tutti.

Nella Manchester industriale dell’epoca in cui Marx scriveva Il Capitale, il 94% dei lavoratori dipendenti svolgeva attività fisiche e parcellizzate, imbrigliati nell’inumana gabbia descritta da Max Weber e schiacciati nella metropoli filmata da Fritz Lang. Nella metropoli industriale, tutto si ingolfa nelle ore di punta e la vita massificata toglie al singolo la solitudine senza dargli la compagnia. Dove i ritmi sono scanditi dal cronometro, anche i secondi hanno un loro preciso valore, la velocità è condizione dell’efficienza e l’efficienza è condizione della ricchezza.

 

Oggi la situazione è completamente cambiata nella sua sostanza anche se resta immutata nella percezione che i policy makers continuano a coltivarne e perpetuarne. Chi studia il fenomeno dei knowledge worker ci assicura che il lavoro intellettuale interessa ormai il 33% in Spagna, il 39% negli Stati Uniti,  il 41% in Italia, il 43% in Francia, il 48% in Germania, il 52% nel Regno Unito (Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo, Lavoro, lavoratori, società della conoscenza, Angeli). Alcuni arrivano a calcolare che in America i lavori intellettuali di tipo flessibile raggiungono il 40%, cui va aggiunto un 20% di lavoratori che svolgono attività creative (Florida, La nuova classe creativa, Mondadori).

A differenza dei lavoratori della vecchia Manchester industriale, questi knowladge workers operano con il cervello e con il computer, non con i bicipiti e con il martello; quando sono impegnati nel loro lavoro non possono distrarsi pensando ad altro; producono novità ed emozioni, non oggetti materiali; anticipano i bisogni dei consumatori; sono spinti dalla molla della motivazione non dalla paura del controllo; svolgono attività sotto tensione, in cui è difficile distinguere il lavoro dallo studio e dal gioco.

“Come faccio a spiegare a mia moglie – si chiedeva Konrad – che quando guardo dalla finestra, sto lavorando?”. Il lavoro intellettuale, soprattutto quando è creativo, non risponde a nessuna delle regole con cui Taylor e Ford hanno imbrigliato il lavoro fisico, ripetitivo, esecutivo della fabbrica industriale. Mentre, alla catena di montaggio, ogni addetto vale quanto il suo collega ed è con lui intercambiabile, nelle attività intellettuali ogni lavoratore ha un suo diverso valore e il lavoratore geniale ha un valore incommensurabile che lo rende insostituibile.

Mentre il tornitore, quando suona la sirena, lascia il tornio in fabbrica e se ne va a casa, dove evita di pensare al lavoro fino al giorno successivo; il creativo lavora con il cervello, che lo accompagna dovunque, giorno e notte, e che riesce ad elaborare idee ovunque egli sia e persino nel dormiveglia. Si può dire a un operaio: “Vieni domani mattina alle 7 e comincia a produrre bulloni”; non si può dire a un creativo: “Vieni domani mattina alle 7 e comincia a produrre idee”.

Come ho cercato di dimostrare nel volume La fantasia e la concretezza (Rizzoli), la produzione di idee segue regole completamente diverse dalla produzione di oggetti. Spesso non segue alcuna regola. Dunque non è possibile applicare lo Scientific Management al lavoro intellettuale, come pretendono di fare le aziende malate di cultural gap, infliggendo ai lavoratori intellettuali la stessa unità di tempo e di luogo imposta agli operai metalmeccanici, con tutto l’armamentario di recinzioni, tornelli, guardiani e cartellini.

Con l’irrompere del lavoro intellettuale, cade il concetto stesso di luogo fisso e di tempo determinato, cade il concetto stesso di pensionamento, cade il concetto stesso di controllo sul processo lavorativo. Poiché la creatività è una sintesi di fantasia e concretezza, l’unica possibilità di incrementare la produttività di idee consiste nel creare team composti da personalità fantasiose e personalità concrete, guidate da leader carismatici, capaci di organizzare il lavoro per obiettivi, in un’atmosfera di fecondo entusiasmo.

Dunque, i policy makers dovrebbero differenziare nettamente le politiche organizzative a seconda che si tratti di attività fisiche ed esecutive, di attività intellettuali e flessibili, di attività intellettuali e creative.