L’ordinamento giuridico
La nozione di ordinamento giuridico
Si chiama ordinamento giuridico un gruppo di soggetti dotati di un’organizzazione e regolato da norme.
Sono ordinamenti giuridici: lo Stato, i sindacati, i partiti, l’ordinamento sportivo, quello religioso ecc. Mentre, però, alcuni ordinamenti sono molto sviluppati, altri lo sono meno.
Lo Stato è .oggi, l’ordinamento giuridico più sviluppato. Esso è composto di molti soggetti (tra i quali vi sono, in particolare, i cittadini); ha un’organizzazione imponente (chiamata amministrazione pubblica) ed è soggetto a un sistema molto complesso di norme (tra cui, principalmente, le leggi).
Lo Stato, anzi, è un ordinamento così sviluppato, da far credere ad alcuni o che non esistono altri ordinamenti giuridici, o che gli altri ordinamenti giuridici siano tutti creati dallo Stato.
Ambedue queste affermazioni sono, però, sbagliate. Da una parte, non è vero che lo Stato ha assorbito tutti gli ordinamenti giuridici: se ciò avvenisse, si avrebbe una prevalenza così forte dello Stato da condurre a eccessi oggi non più accettabili. Anche in ordinamenti dove è fortemente prevalente lo Stato, sussistono altri ordinamenti giuridici, sia pure marginalmente. Ad esempio, anche il fascismo, accettò la permanenza in Italia dell’ordinamento della Chiesa cattolica.
D’altra parte, non è vero che ogni ordinamento è creato dallo Stato. I sindacati e i..partiti, ad esempio, sono costituiti da cittadini che si associano e creano apparati e si danno regole, indipendentemente dall’iniziativa dello Stato.
Se, dunque, esso è l’ordinamento giuridico più complesso, questo non vuoi dire che tutto il diritto promana dallo Stato. Vi sono anche altri ordinamenti giuridici, meno sviluppati, ma non meno importanti. I due esempi più rilevanti sono quelli costituiti dall’ordinamento
internazionale e dall’ordinamento sindacale, l’uno più ampio, l’altro più ristretto dello Stato.
L’ordinamento internazionale si è andato sviluppando specialmente in questo secolo. Ne fanno parte come soggetti, in particolare, gli Stati (che, pur essendo ordinamenti a loro volta, entrano, così, a far parte di un ordinamento giuridico più ampio). Sono, poi, numerose le organizzazioni internazionali come, ad esempio, l’Organizzazione delle nazioni unite (ONU). E ampio è il numero delle norme che regolano l’azione dei soggetti internazionali.
L’ordinamento sindacale si è sviluppato, in Italia, dopo la seconda guerra mondiale. Ne fanno parte, come soggetti, i lavoratori, i datori di lavoro e i sindacati (questi ultimi sono associazioni non riconosciute). I sindacati hanno proprie organizzazioni e stipulano “contratti” che si applicano, come norme, ai lavoratori e agli imprenditori, per definirne diritti e doveri reciproci.
Da quanto si è esposto, risulta chiaro che vi è una pluralità di ordinamenti giuridici. Questi coesistono, sovrapponendosi e tollerando-si a vicenda. Ad esempio, un lavoratore è membro sia dell’ordinamento statale (in quanto cittadino), sia di quello sindacale (perché lavoratore). Come si è già detto, lo Stato è sia un ordinamento giuridico a sé stante, sia parte di un ordinamento giuridico più ampio, quello internazionale.
Naturalmente, i rapporti tra gli ordinamenti sono estremamente complessi e danno luogo a conflitti frequenti. L’ordinamento giuridico più ampio e sviluppato, lo Stato, tende a subordinare a sé gli altri ordinamenti, i quali però, a loro volta, tendono a regolarsi in maniera autonoma. Gran parte delle norme è diretta a regolare i rapporti tra gli ordinamenti giuridici.
Gli elementi degli ordinamenti giuridici
Dalla definizione di ordinamento giuridico si è compreso che tre sono gli elementi indispensabili dell’ordinamento:
— pluralità di soggetti;
— sistema di norme;
— organizzazione.
I tre indicati sono elementi necessari, nel senso che, se uno di essi non c’è, non si può parlare di ordinamento giuridico. Vediamoli uno per uno.
Pluralità di soggetti Un ordinamento giuridico nasce da un gruppo: ad esempio, i fedeli di una religione o gli iscritti a un sindacato.
Ma non basta che vi siano più persone. Occorre che esse, secondo le regole del proprio ordinamento, siano soggetti di diritto. Infatti ogni ordinamento crea i propri soggetti: ad esempio, l’ordinamento statale i cittadini, e quello internazionale gli Stati.
All’opposto, come abbiamo visto, una stessa persona può essere soggetto di più ordinamenti: ad esempio, come cittadino, dell’ordinamento statale e, come atleta, dell’ordinamento sportivo.
Una gran parte delle regole degli ordinamenti è destinata a disciplinare i rapporti tra i soggetti, stabilendo diritti e doveri.
· Sistema di norme È la componente più importante dell’ordinamento giuridico, perché è essa che stabilisce le regole di attribuzione della soggettività, che definisce le situazioni e i rapporti dei vari soggetti e che disegna l’organizzazione. Le norme sono di più tipi ma possono distinguersi in due specie fondamentali: norme condizionali e norme finalistiche.
· Sono norme condizionali quelle che collegano determinati effetti al verificarsi di determinati eventi. Ad esempio, è norma condizionale quella del codice penale sull’omicidio: se uno uccide una persona, è punito con la reclusione.
· Sono. norme finalistiche quelle che stabiliscono obiettivi. Ad esempio, le leggi di programmazione economica e finanziaria contengono, di regola, norme finalistiche.
Si può dire, in generale, che le norme condizionali mirano a disciplinare i rapporti tra i soggetti dell’ordinamento. Mentre quelle finalistiche sono, di regola, dirette all’organizzazione e mirano a stabilirne il “programma di attività”.
Si sono così distinte, sulla base del loro contenuto, le norme. Esse debbono, inoltre, essere proprie dell’ordinamento e avere carattere di sistematicità.
Che le norme siano proprie dell’ordinamento vuoi dire che esse debbono avere origine in decisioni del gruppo che fa parte dell’ordinamento e debbono imporsi all’osservanza dei componenti del gruppo. Se le norme non sono proprie dell’ordinamento, non si può dire che si abbia un ordinamento giuridico separato, ma piuttosto una articolazione dell’ordinamento maggiore che ha posto le norme. Ad esempio, in una società per azioni vi è un gruppo (i soci). Ma non ci sono, normalmente, norme proprie del gruppo, perché lo statuto non fa altro che riprodurre e specificare norme dello Stato, contenute, in Italia, nel codice civile.
Che le norme abbiano carattere di sistema vuoi dire che non basta l’esistenza di regole. Bisogna che queste siano ordinate secondo principi, gerarchicamente articolati, per istituti e settori, e che assicurino
la possibilità dei proprio completamento a mezzo dell’attività interpretativa.
Organizzazione Attiene al modo in cui le funzioni sono ripartite ed esercitate all’interno dell’ordinamento. Per lungo tempo l’organizzazione è stata considerata un aspetto secondario, essendo diffusa l’opinione che essa non interessasse la scienza del diritto e che non fosse elemento costitutivo degli ordinamenti giuridici.
Ridotta al suo nucleo essenziale, l’organizzazione è un disegno permanente che prevede l’esistenza e il funzionamento di organi, di enti e di uffici. Di questi sono disciplinate, all’interno del disegno organizzativo, la competenza e l’attività.
Il numero degli organi tra i quali è ripartito il potere pubblico, a livello costituzionale, e le loro attribuzioni sono stabiliti in via permanente dalla Costituzione.
L’importanza dell’organizzazione è andata progressivamente aumentando negli anni. E oggi è pacifico che solo la presenza di un’organizzazione stabile rende possibile il funzionamento di un apparato complesso. Non solo l’ordinamento giuridico statale, ma anche i suoi organi amministrativi (ministeri) e gli altri enti pubblici adottano, pertanto, un’organizzazione stabile che prevede, ad esempio, il numero dei soggetti preposti a un settore, quello degli impiegati facenti parte di un ufficio, le loro attribuzioni, il potere che possono esercitare ecc.
Non solo lo Stato, ma anche un sindacato o un partito ha bisogno di uffici che si ordinano in un apparato. Gli uffici, di solito permanenti, svolgono le funzioni dello Stato (o del partito o del sindacato) ispirandosi al criterio della divisione del lavoro, per cui un ufficio svolge un’attività, un altro una diversa attività ecc. Tra gli uffici, vi deve essere, poi, un ordine. Gli uffici vengono, quindi, posti in posizione di equiordinazione, se si vuoi dare loro pari rilevanza, o di subordinazione, se si vuole che uno diriga o controlli l’altro. Gli uffici e
i rapporti tra gli uffici hanno raggiunto, negli ordinamenti moderni, complessità tali da richiedere, per la loro organizzazione, appositi esperti.
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I rapporti tra gli ordinamenti giuridici
Gli ordinamenti giuridici, pur essendo diversi l’uno dall’altro, non sono posti, tra loro, nella stessa posizione. Mentre alcuni sono equiordinati, altri sono, invece, subordinati.
I primi, cioè, sono tra loro separati, i secondi invece sono collegati, nel senso che uno di essi deve rispettare almeno alcune regole fondamentali dell’altro. Ad esempio, i rapporti degli ordinamenti statali tra di loro sono, di regola, di equiordinazione; ciascuno Stato è indipendente dall’altro e ne riconosce, a condizioni di reciprocità, alcune regole.
Invece, il rapporto tra l’ordinamento sindacale e quello statale è di subordinazione. L’ordinamento sindacale, pur essendo autonomo, deve accettare le regole dell’ordinamento statale: ad esempio, il sindacato è organizzato secondo un modello previsto dal codice civile (l’associazione non riconosciuta) e non può svolgere attività che sono considerate illecite e sanzionate, a norma del codice penale dello Stato.
Proprio perché l’ordinamento giuridico è più sviluppato e complesso, lo Stato è, di solito, oggi, l’ordinamento che prevale sugli altri. Esso si dice non ha un ordinamento superiore, è sovrano. In realtà — come vedremo meglio più avanti — questo è stato vero per alcuni secoli, da quando è nato lo Stato moderno (Cinquecento - Seicento) alla metà del nostro secolo. Oggi, la situazione va cambiando, perché l’ordinamento statale cede, da una parte, funzioni e poteri a quello internazionale e riconosce, dall’altra, nel suo ambito territoriale, ordinamenti e gruppi portatori di interessi sociali (come i sindacati).
Le norme
Proposizioni normative e norme
Quando si parla di norme, ci si riferisce di solito alle leggi. L’identificazione di norma e legge, però, è sbagliata non solo perché esistono anche altre norme (Costituzione, regolamento ecc.), ma anche perché altro è la norma, altro la proposizione normativa.
La proposizione normativa — o fonte di cognizione o fonte del diritto
— è il documento o atto che contiene il testo.
La norma — o fonte di produzione — è il precetto o regola che si ricava dal testo.
L’operazione che permette di passare dalla proposizione normativa alla norma è l’interpretazione.
Per comprendere e analizzare questi aspetti dovremo, quindi,
esaminare due temi:
— l’elenco delle fonti;
— l’interpretazione delle fonti.
Le fonti del diritto
Per fonte del diritto si intendono gli atti di produzione normativa, e cioè quegli atti che pongono proposizioni giuridiche.
Nell’ordinamento italiano (e, in generale, negli ordinamenti moderni) l’elenco delle fonti del diritto è determinato dalle leggi. Esistono, in altre parole, leggi che contengono norme sulla produzione giuridica. Questo avviene per un motivo molto evidente. Poiché è dalle fonti del diritto che si traggono le regole e i divieti sulla base dei quali opera la società, lasciare libero l’elenco delle fonti consentirebbe abusi. Ad esempio, senza un preciso elenco delle fonti del diritto,
un’autorità potrebbe stabilire arbitrariamente nuove norme e abrogare norme esistenti.
Le principali norme sulla produzione giuridica sono contenute nella Costituzione (artt. 70 SS. sulla formazione delle leggi, e ii6 ss. sulle norme regionali) e nel codice civile (art. 1 che contiene l’elenco delle fonti del diritto). Bisogna tenere conto, però, che la Costituzione, come vedremo, non solo ha maggiore “forza” del codice, ma è anche più recente (è entrata in vigore nel 1948, mentre il codice è del i 942). Per cui, gli articoli ora ricordati vanno interpretati congiuntamente.
Le fonti del diritto di cui si è parlato sono fonti scritte o fonti-atti. Esistono, negli ordinamenti contemporanei, anche fonti non scritte o fonti-fatti. In Italia, l’esempio principale è quello della consuetudine, di cui si parlerà più avanti. Qui occorre soffermarsi sulla differenza tra fonti scritte e non scritte.
Negli ordinamenti sviluppati, di regola, ci si vale di fonti scritte. Ma ci sono moltissimi ordinamenti contemporanei in cui non prevale la legge, bensì altre fonti, come la tradizione o gli usi. In quasi tutti i Paesi arabi, ad esempio, domina la shari’a, che è un misto di precetti religiosi non scritti o scritti in libri di fede, di interpretazioni del Corano (il principale libro religioso dei Paesi islamici) e di decisioni di giudici di tipo molto particolare (cadì).
Le fonti non scritte favoriscono, secondo alcuni, l’evoluzione sociale, perché cambiano a mano a mano che muta la società. Ciò è facilitato quando — come spesso accade — vi sono clausole di adattamento, che consentono di cambiare le regole. Un esempio è l’ingegnoso principio della shari’a secondo cui «la validità di un principio sul quale c’è una divergenza può essere messa in dubbio, mentre ciò non può avvenire se su un principio c’è consenso». Un altro principio diffuso nei Paesi a diritto non scritto è quello di interesse pubblico. Sulla base di esso, si può scegliere, tra le varie interpretazioni e tradizioni, quella più conveniente per il benessere collettivo.
Tuttavia, le fonti non scritte introducono nell’ordinamento elementi di incertezza e instabilità e si prestano, perciò, a soprusi. Inoltre, l’osservazione storica mette anche in dubbio l’idea per la quale le fonti non scritte faciliterebbero l’evoluzione sociale. Nei maggiori Paesi sviluppati, infatti, si fa ricorso alle leggi, non a fonti non scritte. I cambiamenti sociali, d’altra parte, non avvengono per evoluzione lenta, ma con modificazioni, spesso repentine e talvolta imposte da una minoranza. Basti ricordare i testi costituzionali della Francia rivoluzionaria (dopo il 1789).
Le fonti si classificano, secondo una scala gerarchica, in:
— costituzionali;
— primarie;
— subprimarie;
— secondarie.
La scala gerarchica è strettamente vincolante, per cui, in primo luogo, una norma posta su un livello non può essere modificata se non da una norma dello stesso livello (o di livello superiore); e, in secondo luogo, le norme del livello inferiore debbono conformarsi a quelle del livello superiore.
L’ordinamento giuridico predispone numerosi strumenti per assicurare la conformità degli atti del livello gerarchico inferiore a quelli del livello superiore. Se, ad esempio, una legge (fonte primaria) non si attiene alla Costituzione (fonte costituzionale, che è superiore), si può, nel corso di un processo, sollevare la questione di costituzionalità e chiedere alla Corte costituzionale di verificare la corrispondenza della legge alla Costituzione.
La ragione per la quale è stabilita questa gerarchia delle fonti è la seguente: determinando quale atto ha maggiore forza, si determina, contemporaneamente, quale organismo pubblico è più importante. Nell’ordinamento italiano, ad esempio, che è ispirato al principio di democrazia, uno degli atti di maggior rilievo è la legge, che deve passare al vaglio del Parlamento. In questo modo, si conferisce un ampio potere al Parlamento, che è il maggior organismo eletto dal popolo.
Al principio della gerarchia delle fonti si aggiunge quello della competenza. Alcune materie o alcune zone del territorio possono essere attribuite alla disciplina di organismi non statali, decentrati (ad esempio, le Regioni), ai quali è conferita la potestà di emanare norme che sono equiparate alle fonti primarie e statali. Proprio per questo, tali fonti vengono dette subprimarie.
3.4
Le fonti costituzionali
Le fonti costituzionali sono di due tipi:
— principi istituzionali fondamentali e non modificabili. Ad esempio, quello sancito nell’ultimo articolo della Costituzione (art. 139), per cui «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». La trasformazione della Repubblica in Monarchia comporterebbe una modificazione così profonda da costituire un rivolgimento costituzionale;
— la Costituzione, entrata in vigore il Io gennaio i 948 e le leggi costituzionali (art. 138 Cost.). La Costituzione e le leggi costituzionali sono leggi, ma hanno una particolare forza, che deriva loro dalla speciale procedura di approvazione e di modificazione (doppia deliberazione in ciascun ramo del Parlamento, di cui la seconda a maggioranza assoluta dei componenti) e dal controllo della Corte costituzionale (che assicura la conformità delle leggi ordinarie alla Costituzione e alle leggi costituzionali). Per questi motivi, la Costituzione viene detta rigida, mentre lo Statuto albertino, che poteva essere modificato con legge ordinaria, era una costituzione flessibile.
3.5
Nella gerarchia delle fonti, si sono inserite le fonti comunitarie. Queste hanno acquisito preminenza nei confronti del diritto interno. L’unico loro limite è quello del rispetto dei principi fondamentali della Costituzione e dei diritti inviolabili dell’uomo.
A queste conclusioni la Corte costituzionale italiana e la Corte di giustizia europea sono pervenute dopo una lunga evoluzione.
In origine, i rapporti erano così definiti. Da un lato, vi era una riserva di competenza a favore del diritto comunitario. I trattati comunitari stabilivano le materie attribuite alla Comunità e, di conseguenza, quelle che rimanevano agli Stati.
Dall’altro, le fonti comunitarie erano distinte in regolamenti, con forza di legge e applicazione diretta negli Stati membri (e, quindi, in Italia) e direttive, rivolte agli Stati, che erano tenuti, a loro volta, a recepirle nell’ordinamento interno.
Successivamente, si sono prodotti due cambiamenti. Da un lato, vi è stata un’espansione delle competenze comunitarie a danno degli Stati, ed è divenuto difficile stabilire la linea esatta di demarcazione della sfera comunitaria e di quella statale. Dall’altro le direttive sono divenute sempre più dettagliate e hanno finito in molti casi con l’equivalere ai regolamenti.
Da ultimo, la sentenza della Corte costituzionale italiana 5 giugno 1984, n. 170 ha stabilito che il diritto comunitario prevale sempre su quello interno e che, di conseguenza, il giudice deve disapplicare le leggi statali in contrasto con le norme comunitarie, sia che queste seguano, sia che precedano le leggi ordinarie non compatibili con le prime.
La situazione prodottasi non è chiarissima: infatti, la legge statale successiva alla fonte comunitaria ha bisogno di un giudice che, quando accerti il contrasto con il diritto comunitario, la disapplichi, non potendo abrogarla. Ne deriva che la norma statale in contrasto con quella comunitaria rimane in vita, ma disapplicata nel caso concreto.
Le fonti primarie sono gli atti con forza di legge ordinaria, e cioè:
— le leggi approvate secondo l’art. 70 della Costituzione dal Parlamento, promulgate dal presidente della Repubblica e pubblicate sulla “Gazzetta Ufficiale”
— i decreti legge, adottati dal governo in caso di urgenza e necessità, se convertiti in legge dal Parlamento entro sessanta giorni (art. 77 Cost.);
— i decreti legislativi delegati, adottati dal governo sulla base di una legge di delegazione, approvata dal Parlamento, che deve fissare materia, principi e tempi ai quali attenersi (art. 76 Cost.);
— i regolamenti della Comunità economica europea, nelle materie a essa attribuite, che hanno direttamente forza di legge nell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 117 della Costituzione, che consente le limitazioni di sovranità.
Sono quelle che, come s’è detto, pur provenendo da altri organismi pubblici, sono equiparate a quelle statali:
— le leggi regionali, emanate secondo gli artt. 117 e 121 della Costituzione;
— numerosi regolamenti comunali (ad esempio, in materia edilizia, di polizia e di igiene).
Le norme subprimarie hanno la stessa forza legislativa di quelle primarie, ma sono vincolate nel loro contenuto all’osservanza dei principi delle norme primarie. E questo si spiega se si pensa al fatto che esse sono emanate da Regioni e Comuni, nelle materie loro attribuite.
Le fonti secondarie sono definite, per lo più, regolamenti. Ma non tutti i regolamenti sono, al contrario, fonti secondarie: ad esempio, abbiamo già visto, tra le fonti primarie e tra quelle subprimarie, dei regolamenti.
I regolamenti si distinguono in:
a) regolamenti statali se promanano da organi dello Stato (ad esempio, presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, ministro). Questi si distinguono, a loro volta, in:
— regolamenti per l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi;
— regolamenti per l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi recanti norme di principio, esclusi quelli relativi a materie riservate alla competenza regionale;
regolamenti per le materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge;
— regolamenti per l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge;
— regolamenti per l’organizzazione del lavoro e i rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti in base agli accordi sindacali;
b) regolamenti non statali, se sono adottati da Regioni, enti locali, altri enti pubblici
L’organizzazione
Introduzione
Dei tre elementi degli ordinamenti giuridici, l’organizzazione è quello meno noto e studiato perché, per lungo tempo, si è pensato che il diritto (inteso come sinonimo di ordinamento) si esaurisse nelle norme e nei loro effetti nei rapporti tra i soggetti.
Nell’ambito dell’organizzazione, si è poi distinta l’organizzazione costituzionale da quella amministrativa. Alla prima è dedicata gran parte della Costituzione. La seconda trova solo la sua testa di capitolo (art. 97) nella Costituzione ed è, poi, disciplinata dalle leggi ordinarie. Per lungo tempo, si è pensato che, mentre l’organizzazione costituzionale avesse un’importanza fondamentale nella vita del cittadino, altrettanto non potesse dirsi per l’organizzazione amministrativa.
In passato ciò era vero, perché gli apparati amministrativi erano poca cosa. Si pensi, per avere un’idea dello sviluppo delle organizzazioni, che nel 1861, al momento dell’unificazione, in Italia i dipendenti delle pubbliche amministrazioni rappresentavano solo lo 0,500/o degli abitanti, mentre ora costituiscono circa il 10% degli abitanti.
Un secondo motivo per il quale l’aspetto dell’organizzazione amministrativa è passato, finora, in secondo piano è costituito dalla concezione esecutiva dell’amministrazione. Anche in questo caso, con l’ampliarsi dei compiti e delle dimensioni dell’amministrazione, ci si è resi conto del fatto che essa prende decisioni importanti e svolge compiti fondamentali, per cui il suo aspetto organizzativo non può essere sottovalutato.
4.2
Norme sull’organizzazione
Così, come si è visto per le norme e come si vedrà per i soggetti, anche l’organizzazione viene oggi sottoposta a norme. Per cui, accanto alle norme sui soggetti e a quelle sulle norme, vi sono norme sull’organizzazione.
In questo caso, il fenomeno è ancora più evidente, perché — come si è accennato — le norme sull’organizzazione dello Stato sono in larga parte contenute nella Costituzione. Ciò vuoi dire che non si è ritenuta sufficiente la fonte primaria, ma si è ricorsi alla fonte gerarchicamente superiore, quella costituzionale, che offre maggiori garanzie di stabilità, perché più complessa da modificare.
Più di metà della Costituzione italiana, dall’art. 55 all’art. 139, è costituita da norme dedicate all”’ordinamento della Repubblica”. In questa parte, sono disciplinate:
— l’organizzazione costituzionale: funzioni, strutture, procedimenti degli organi di vertice dell’ordinamento (Parlamento, presidente della Repubblica, governo, Corte costituzionale);
— l’organizzazione della magistratura, considerata come un ordine autonomo e indipendente da altri poteri (Consiglio superiore della magistratura, organi giurisdizionali);
— l’organizzazione amministrativa, costituita dai ministeri, dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni.
Riserva di legge sull’organizzazione amministrativa
Mentre la Costituzione può entrare anche in molti dettagli dell’organizzazione costituzionale e della magistratura, non può fare altrettanto per l’organizzazione amministrativa. Questa, infatti, è così ampia da non poter essere disciplinata tutta dalla Costituzione.
Sull’organizzazione amministrativa la Costituzione stabilisce alcuni principi (come — ad esempio — quello del pubblico concorso per l’accesso, e altri che saranno esaminati più avanti) ma, poi, dispone una riserva di legge. Essa, cioè, stabilisce che l’organizzazione amministrativa deve essere regolata dalla legge (art. 97: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [...]”).
La riserva di legge — che si trova anche in molte altre parti della Costituzione, per materie diverse dall’organizzazione — può essere assoluta o relativa, a seconda che la legge debba regolare la materia interamente o in parte.
La riserva di cui stiamo parlando è relativa. Ciò vuoi dire che non ogni aspetto dell’organizzazione amministrativa deve essere regolato con legge. Ad esempio i ministeri non possono essere istituiti o modificati se non per legge. Ma le divisioni, che sono gli uffici nei
quali le direzioni generali si ripartiscono, possono essere mutate con semplici decreti ministeriali.
4.4
Il concetto di organizzazione
L’organizzazione è un fenomeno complesso, in cui si rilevano i seguenti elementi:
— le funzioni o compiti pubblici che debbono essere svolti;
— il disegno organizzativo prescelto per lo svolgimento ditali funzioni procedure da seguire per porre in essere i compiti;
mezzi finanziari e personali attribuiti per lo svolgimento delle funzioni.
Tutti questi elementi sono essenziali perché vi sia un’organizzazione: ad esempio, non si può disporre con legge lo svolgimento di funzioni, senza dire quale ufficio debba provvedervi e con quali mezzi. Tuttavia, i vari elementi non stanno nella stessa relazione tra di loro. Infatti, disegno organizzativo, procedure e mezzi sono strumentali alle. funzioni, che rappresentano, in un certo senso, l’obiettivo da perseguire.
4.5
Le funzioni
Si può dire che non vi sia legge che non attribuisca funzioni a uffici pubblici. Anche norme che riguardano rapporti interprivati si risolvono spesso nell’accollare funzioni all’organizzazione pubblica. Ad esempio, l’obbligo di registrare taluni beni (ad esempio, le automobili), disposto per assicurare la circolazione giuridica (ad esempio, la vendita e l’acquisto) ditali beni (e quindi per garantire, ad esempio, l’acquirente circa il titolo di proprietà del venditore), si risolve in un’attribuzione di funzioni alla pubblica amministrazione, che deve provvedere alla tenuta dei registri (in questo caso, il pubblico registro automobilistico).
Vi sono, ..però, leggi che attribuiscono più direttamente compiti a uffici pubblici già esistenti o creati ex novo: ad esempio, che introducono autorizzazioni, prevedono incentivi, dispongono espropriazioni ecc.
Queste leggi — di solito — non attribuiscono le funzioni a singoli uffici ma, genericamente, ad apparati di settore (ad esempio, il ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato). Altre norme a carattere interno provvederanno, poi, a stabilire quale ufficio, nel ministero, dovrà svolgere le nuove funzioni.
4.6
Il disegno organizzativo
Per comprendere il disegno organizzativo, occorre chiarire che, nel passato, le funzioni non venivano attribuite a uffici, ma a persone: ad esempio, il re attribuiva a una persona della sua corte il compito di seguire un determinato affare.
Col passare del tempo, da una parte, le funzioni sono state attribuite sempre più in via permanente, anziché temporanea; dall’altra, invece di attribuirle a persone, sono state attribuite a uffici. Ciò non vuoi dire che, poi, non si debba sempre far ricorso a persone, per svolgerle concretamente. Ma comporta che la funzione sia oggettivata nell’ufficio, perdendo quel carattere personale che essa aveva precedentemente. La persona sarà solo titolare dell’ufficio.
Fatto questo passo (dalla persona all’ufficio), si sono aperte infinite possibilità di organizzare gli uffici, perché essi prescindono dalle persone. Diventa allora rilevante il disegno organizzativo, e cioè la scelta di uno dei tanti modelli organizzativi possibili. Di questi parleremo nella parte sulla pubblica amministrazione. Qui basta accennare che, nell’ordinamento italiano, come in gran parte di quelli stranieri, si segue il principio organizzativo della divisione del lavoro per settore. Così, ad esempio, vi è un ministero che si interessa dell’agricoltura, uno che si occupa dell’industria, uno che interviene nel commercio con l’estero ecc.
La complessità delle funzioni delle organizzazioni moderne è tale che tutte le attività si svolgono secondo procedure: vi è chi deve prendere l’iniziativa, chi fa l’istruttoria, chi decide. Nei fatti, le procedure sono molto complesse, perché alle tre fasi indicate si aggiungono quasi sempre una fase di programmazione dell’attività e una fase di controllo.
L’iter procedurale si svolge raramente nello stesso ufficio. Di fatto, è prevalente il caso che debbano intervenire più uffici, spesso di ministeri o apparati diversi. La stessa divisione del lavoro tra uffici fa sì che debbano necessariamente sentirsi più uffici. Ad esempio, se si deve decidere sulla destinazione di un’area sita in una città, in una
proprietà demaniale di rilevante interesse artistico, oltre all’ufficio urbanistico del Comune, saranno interessati alla procedura la direzione generale del demanio (del ministero delle Finanze) e l’ufficio centrale per i beni ambientali, archeologici, architettonici, artistici e storici (del ministero dei Beni culturali e ambientali).
Quanto si è rilevato rende anche conto dello stretto legame che corre tra il disegno organizzativo e la procedura: si può dire che essi sono due aspetti, il primo statico, il secondo dinamico, di uno stesso fenomeno, che è quello della distribuzione delle funzioni e dei relativi poteri.
I mezzi
Come s’è detto, un ufficio non può operare se non è provvisto di mezzi e, in particolare, di personale.
Il personale che svolge oggi attività nell’organizzazione pubblica è - come s’è rilevato - in posizione diversa dalle persone che collaboravano, una volta, con l’autorità pubblica. Separata la persona dall’ufficio:
— l’ufficio è ordinato secondo il principio della continuità, anche se il titolare dell’ufficio lo lascia o muore; in questo caso, è previsto che vi sia un supplente o vicario in via temporanea e, poi, vi è l’attribuzione della titolarità dell’ufficio ad altra persona. Ad esempio, se il titolare dell’ufficio di presidente della Repubblica muore, non viene a mancare l’ufficio, perché il presidente del Senato diventa presidente della Repubblica supplente, finché una nuova persona non viene eletta alla carica di presidente della Repubblica;
— il patrimonio della persona è separato da quello dell’ufficio. La persona non può appropriarsi dei beni dell’ufficio (altrimenti commette il reato di peculato, punito dal codice penale, art. 314) e, viceversa, i suoi beni personali sono da lui utilizzabili liberamente senza che l’organizzazione pubblica possa intervenire;
— il rapporto che lega il titolare dell’ufficio all’organizzazione è separato dalla funzione: il titolare dell’ufficio è tenuto a svolgere le attività per le quali è stato scelto; la funzione va al di là dell’attività di ogni singolo titolare di ufficio.
I titolari degli uffici possono essere di due tipi.
i. Eletti o nominati per un periodo determinato: ad esempio, il presidente della Repubblica e i parlamentari (che sono eletti rispettivamente dal Parlamento e dal popolo) o i presidenti degli enti pubblici (che sono nominati).
2. Scelti per concorso, a tempo indeterminato: ad esempio, i magistrati e gli impiegati pubblici.
Mentre i primi non sono legati da un rapporto di lavoro (si chiamano, per tradizione, funzionari onorari, perché non hanno uno stipendio, ma solo indennità), i secondi hanno un vero e proprio rapporto di lavoro con lo Stato (si chiamano, perciò, funzionari professionali).
I diversi modi in cui vengono scelti (l’elezione, diretta o indiretta, o il concorso, detto anche criterio del merito) dipendono dal tipo di cariche: alle cariche che comportano responsabilità maggiori si accede, di solito, con l’elezione, perché si preferisce il principio democratico del controllo popolare periodico sulla scelta delle persone che le ricoprono.
Altri mezzi sono i beni (mobili e immobili) di cui dispone l’ufficio, i mezzi finanziari ecc. Di questi parleremo nella parte sulla pubblica amministrazione.
4.9
Prima d’andare avanti, occorre definire organo ed ente, che sono due
nozioni essenziali per capire il diritto pubblico.
Organo è un’articolazione dell’organizzazione che agisce per l’ente pubblico e imputa, quindi, all’ente sia gli atti che pone in essere, sia gli effetti degli stessi. Un esempio potrà chiarire meglio il concetto: la Giunta è organo dell’ente pubblico Regione; di conseguenza, gli atti della Giunta sono atti della Regione.
E’ evidente che il concetto di organo serve a ridurre il numero dei centri di imputazione. Bisogna, però, non cadere nell’errore di ritenere, per l’affinità delle parole, che l’organizzazione sia un complesso di organi. Come s’è visto, il concetto di organizzazione è molto più vasto. Esso non solo comprende molte altre figure soggettive, oltre agli organi (ne fanno parte, ad esempio, anche gli enti pubblici che sono persone giuridiche), ma è composto — come s e visto — di molti altri elementi (funzioni, disegno organizzativo, procedure, mezzi).
Gli organi sono di diversi tipi. Si distinguono:
— in relazione alle funzioni, in consultivi (se svolgono compiti istruttori) e deliberativi (se svolgono compiti di decisione);
— in relazione al titolare, in individuali (o monocratici) se vi è preposta una sola persona, e collegiali se ne è titolare un collegio (e cioè più di una persona: il direttore generale è organo individuale, il Consiglio di Stato collegiale).
Ente pubblico è la figura soggettiva cui l’organo è riferito. Ente pubblico è l’equivalente di persona giuridica pubblica.
L’ente pubblico sarà esaminato analiticamente più avanti. In passato il maggiore degli enti pubblici era considerato proprio lo Stato:
per identificare lo Stato come ente, si parlava di Stato - ente (o di Stato - persona giuridica). Ma ci si è poi resi conto che le attività delle parti, che compongono lo Stato, solo raramente vengono a esso imputate o attribuite. Ad esempio, una decisione del ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato non si imputa allo Stato; contro di essa si fa ricorso al giudice amministrativo chiamando in giudizio direttamente il ministero. Per cui è difficile sostenere ancora che lo Stato è ente pubblico.
La realtà degli organi e degli enti presenta difficoltà che complicano notevolmente il quadro finora presentato, anche se rappresentano eccezioni. In particolare:
— vi sono enti che, per scopi determinati, diventano organi dello Stato: ad esempio, la Banca d’Italia è un ente pubblico ma, quando svolge le funzioni di vigilanza sulle aziende di credito, è titolare di un organo statale (perché agisce nella veste dell’Ispettorato del credito e del risparmio, organo statale istituito nel 1936 e soppresso nel 1947 per attribuirne i compiti alla Banca d’Italia);
— vi sono organi che però, a certi fini, hanno personalità giuridica; ad esempio, all’Azienda per gli interventi sul mercato agricolo (AI-MA), che è organo dello Stato, per facilitarne l’attività contrattuale, èstata attribuita la natura di ente (quindi, è in corso la modificazione della sua denominazione in Ente per gli interventi sul mercato agricolo — EIMA).
I soggetti
5.1
Soggetti giuridici, persone fisiche e persone giuridiche
Così come gli altri due elementi degli ordinamenti giuridici (le norme e l’organizzazione) anche l’acquisto e la perdita della qualità di soggetto di un ordinamento sono disciplinati da norme. Tuttavia, mentre nel caso della produzione di norme e della disciplina dell’organizzazione, le fonti normative sono contenute nella Costituzione, l’acquisto e la perdita della qualità di soggetto sono regolati dalle leggi ordinarie.
I soggetti del diritto si distinguono in persone fisiche e in entità immateriali o gruppi organizzati. E soggetto di diritto una persona fisica, ma sono soggetti di diritto un partito politico, un sindacato, un’associazione che si presentano come un gruppo organizzato o entità immateriale. Va ancora aggiunto che, mentre le persone fisiche sono sempre soggetti di diritto privato, le entità immateriali possono essere soggetti e persone giuridiche; queste ultime sono centri di attività e di imputazione più completa. Sono, inoltre, soggetti di diritto privato (ad esempio, l’associazione “Italia Nostra”) o di diritto pubblico (ad esempio, un’università). Quanto all’ampiezza dei poteri esercitabili dalle entità immateriali, essa varia da ente a ente ed è disciplinata dalle leggi istitutive e dagli statuti.
Il criterio di appartenenza allo Stato delle persone fisiche è la cittadinanza; quello delle persone giuridiche è la nazionalità.
5.2
Cittadinanza e nazionalità
La cittadinanza comporta diritti e doveri. I diritti principali sono quelli civili (poter stipulare un contratto, ad esempio) e specialmente quelli
politici (ad esempio, il diritto di voto: art. 48 Cost.). Il dovere più importante è quello di fedeltà: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» (art. 54).
La cittadinanza si acquisisce e si perde. Il nostro ordinamento, nel determinare i criteri di acquisto e perdita della cittadinanza, si è preoccupato di salvaguardare l’unità familiare e di ridurre la possibilità dei casi di apolidia (apolide è chi non ha la cittadinanza di alcuno Stato).
In particolare, secondo la legge 13 giugno 1912, n. ~ modificata con decreto legislativo i dicembre 1934, n. 1997, i modi di acquisto della cittadinanza sono i seguenti:
— è cittadino il figlio di genitori italiani, dovunque esso sia nato:
— è cittadino il nato nel territorio dello Stato, figlio di genitori ignoti o apolidi o cittadini di Stati nei quali il figlio non acquista la cittadinanza dei genitori;
— diviene cittadino chi risiede in Italia da cinque anni (o, in particolari casi, per periodi più brevi) e fa richiesta di “naturalizzazione”, e cioè di concessione per decreto della cittadinanza;
— diviene cittadino, anche in questo caso con concessione, lo straniero, minore, riconosciuto come proprio figlio da italiani o nato in Italia o figlio di stranieri residenti in Italia da oltre dieci anni al momento della nascita, nonché gli stranieri di origine italiana (quando abbiano particolari requisiti);
— diviene cittadina la donna straniera che sposi un cittadino italiano; essa conserva la cittadinanza anche se rimane vedova o se si separa dal marito.
I modi in cui si perde la cittadinanza sono:
— la rinunzia del cittadino (ad esempio, per l’acquisto volontario di
altra cittadinanza);
— il matrimonio della donna italiana con uno straniero cittadino di
uno Stato in cui la cittadinanza si comunica col matrimonio.
La nazionalità delle persone giuridiche private dipende dal luogo dove queste si costituiscono, dalla sede dell’amministrazione e dall’entità dell’attività esercitata in Italia (artt. 2505 ss. del codice civile). La nazionalità delle persone giuridiche pubbliche dipende dall’atto con il quale queste vengono istituite.
Per quanto riguarda i diritti elettorali, il Trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht nel 1992, stabilisce che ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino:
— ha diritto di voto ed eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato
membro in cui risiede;
— ha diritto di voto ed eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede.
Ambedue i diritti spettano ai cittadini di Stati membri alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato di residenza.
Lettura. Dal Codice civile
Nel diritto, accanto alle persone fisiche, esistono e operano soggetti immateriali”, cioè persone in senso non fisico ma giuridico, in quanto siano state riconosciute dall’ordinamento con atto formale.
Alla pari delle persone fisiche, le persone giuridiche sono titolari di diritti e di doveri, anche se hanno una capacità di agire più limitata rispetto alle prime (ad esempio, le persone giuridiche possono ricevere donazioni, ma non possono contrarre matrimonio).
Le persone giuridiche, inoltre, a seconda del modo e delle finalità per i quali sono state costituite, possono agire nell’ambito del diritto privato (persone giuridiche private) o in quello del diritto pubblico (persone giuridiche pubbliche).
Lo Stato
Varietà dei significati di Stato. Stato-ente e Stato-ordinamento
Chiarite le nozioni essenziali e preliminari del diritto, prima di passare all’esame della Costituzione e dell’amministrazione va precisato che ciò che contraddistingue lo Stato, rispetto agli altri ordinamenti giuridici, è il fatto di non dipendere, né con riguardo alla propria nascita. né con riguardo alla propria sopravvivenza, da altro ordinamento. Per tali motivi, lo Stato si definisce ordinamento originario e sovrano. Lo stesso termine Stato riassume questa posizione. Esso esprime la realtà del permanere nel tempo di un assetto nel quale una comunità legata da affinità culturali, linguistiche e religiose trova il proprio ordine.
Il termine, già utilizzato nell’antichità, nell’età moderna designa quelle organizzazioni politico-territoriali che, a seguito del trattato di Westfalia (1648), erano riuscite a recidere ogni dipendenza dal Papato e dall’Impero e a porsi come superiorem non recognoscentes.
Come s’è già visto per la parola “diritto”, anche l’espressione “Stato” ha molti significati. Per limitarci a quelli essenziali, si pensi all’uso della parola nelle due seguenti espressioni.
i. «Il sistema fiscale dello Stato italiano è retto dal principio di progressività». Con questa frase ci si riferisce a una caratteristica (la progressività) del sistema fiscale, con il quale si finanziano le spese dell’organizzazione pubblica. Stato è, quindi, inteso come Stato-ente od organizzazione. Di esso, nell’accezione usata, ad esempio, non fanno parte i cittadini i quali, anzi, in quanto soggetti al sistema fiscale, si contrappongono a esso.
2. «Lo Stato è l’insieme dei cittadini posti su un territorio e retti da un governo». Questa espressione riassume la nozione corrente di Stato. In essa, la parola Stato comprende, a differenza del primo esempio, anche la collettività dei cittadini. Stato, quindi, è inteso qui come Stato-ordinamento o comunità.
Il bisogno, ormai diffuso, di far seguire la parola Stato da un’altra parola, diretta a qualificare la prima, è un sintomo della varietà di significati della parola Stato. Un secondo segno si trova nella Costituzione italiana, dove:
— è adoperata, in genere, la parola Repubblica (ad esempio, art. I: «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sui lavoro»; oppure art. 9: «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica»). Con questa parola, la Costituzione si riferisce all’ordinamento statale nel suo complesso e, quindi, al secondo significato di Stato sopra indicato, allo Stato-ordinamento;
— in qualche caso, è adoperata la parola Stato (ad esempio, art. 7: «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»). In questo modo, la Costituzione si riferisce al primo significato di Stato sopra indicato, allo Stato-ente.
Per riassumere, si può dire che la parola “Stato” ha più significati, dei quali i più importanti sono due:
— Stato come organizzazione o ente, che si riferisce al potere pubblico, contrapposto alla collettività;
— Stato come ordinamento o comunità, che si riferisce sia al potere
pubblico sia alla collettività.
Mentre la prima nozione di Stato è più ristretta, la seconda è più ampia e comprende in sé la prima.
6.2
I cosiddetti elementi costitutivi dello Stato
In passato, si diceva che lo Stato è costituito da tre elementi:
— un elemento formale, costituito dalla sovranità;
— un elemento materiale, costituito dal territorio;
— un elemento personale, costituito dal popolo.
Vedremo ora che solo uno di questi — il popolo — si può dire elemento dello Stato. Gli altri non lo sono. Se si ricorda ciò che s e detto prima, a proposito degli ordinamenti, la cosa dovrebbe apparire chiara fin da ora. Lo Stato — in senso ampio — è un ordinamento, anzi il più sviluppato e complesso degli ordinamenti. Elementi costitutivi degli ordinamenti sono: soggetti, norme e organizzazione. Il popolo indica i soggetti. La sovranità e il territorio non hanno riferimento con gli altri due elementi degli ordinamenti. Ma vediamo questi cosiddetti elementi dello Stato.
6.3
Sovranità dello Stato e sovranità del popolo
Lo Stato — secondo la tradizione — è sovrano in quanto è l’autorità che non ha altre autorità superiori e sottopone, al suo interno, ogni potere al proprio.
Ciò è storicamente vero. Lo Stato moderno si afferma nel Cinquecento-Seicento e si completa nell’Ottocento proprio grazie a un processo nei due sensi.
Da una parte, si libera della tutela di organismi sovranazionali, come gli Imperi (che comprendevano più Stati) o la Chiesa (che affermava propri diritti all’interno degli Stati).
Dall’altra, gli Stati eliminano tutte le autorità esistenti nel proprio territorio e che intralciano il potere unitario dello Stato, e accentrano le decisioni. Ad esempio, in Francia, ancora nel Settecento, oltre a un potere centrale, quello del re, vi erano strutture e poteri locali (di nobili, di consigli e giurisdizioni) che si comportavano autonomamente.
Dopo la rivoluzione francese, Napoleone soppresse questi poteri e stabili che ogni potere derivava dal centro: dai ministri centrali dipendevano le autorità locali (prefetti e sottoprefetti). Si costituisce, così, la piramide burocratica, con un vertice al centro che dà ordini a tutte le strutture periferiche; queste rispondono esclusivamente al centro.
Chiarite le ragioni storiche per le quali si dice che lo Stato è sovrano, bisogna aggiungere che questo, oggi, non è più vero. Una disposizione costituzionale, l’art. 1, comma 2°, dice, infatti, che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
La sovranità, quindi, non è più un attributo dello Stato, ma del popolo, cioè di uno degli elementi dello Stato-ordinamento giuridico.
Nel far ciò, la Costituzione ha capovolto la tradizionale impostazione: sovrani non sono più i vertici (come una volta, quando sovrano era il re), ma la base, la collettività.
D’altra parte, dopo la lunga prevalenza, tra il Cinquecento e l’Ottocento, degli Stati-nazione, si sono andati sviluppando - come vedremo più avanti - organismi sovranazionali, che assorbono alcune funzione proprie degli Stati, e ai quali questi debbono adeguare il proprio ordinamento (ad esempio, L’Unione Europea).
6.4
Il territorio: non elemento, ma limite di validità
dell’ordinamento statale
Secondo il modo di vedere tradizionale, il territorio è un elemento costitutivo dello Stato perché oggetto di un rapporto giuridico, di cui una parte sarebbe lo Stato.
Se si esaminano, però, gli aspetti in cui viene in luce il territorio, si giunge a una diversa conclusione.
Vediamo di quali parti si compone il territorio e sotto quale profilo rilevano le varie parti:
— lo spazio terrestre compreso nei confini;
— il soprasuolo e sottosuolo, fin dove si estende la possibilità di controllo dell’uso (salve le convenzioni tra gli Stati, come quella di Chicago del ~ che ha consentito la libertà di sorvolo in tempo di pace);
— il mare territoriale, e cioè il mare costiero, anch’esso fin dove si estende la possibilità di controllo dell’uso (di solito s~ miglia, ma la materia è sempre più regolata da trattati tra singoli Stati);
— i luoghi riconosciuti da altri Stati extraterritoriali o immuni. Sono considerati parti del territorio quelle che altri Stati riconoscono come aventi gli stessi caratteri del territorio statale (extraterritorialità), o come aventi alcuni di tali caratteri (immunità: riconosciuta alle sedi diplomatiche e agli addetti a esse).
Come è evidente dai vari profili in cui viene in luce il territorio, esso non è elemento costitutivo dello Stato, ma solo limite di validità dell’ordinamento statale. Esso, cioè, non è (parte del) contenuto dello Stato ma solo limite alla sua azione. Infatti, in tutti i suoi aspetti, esso si presenta come un mezzo per definire il luogo dove finisce l’azione di uno Stato e comincia, quindi, l’azione di un altro.
La divisione dei poteri può essere formulata in modo molto semplice. Negli Stati moderni, si realizza una sorta di divisione dei compiti fra tre apparati:
— le assemblee legislative, che adottano i precetti generali e astratti (norme);
— l’apparato esecutivo, che esegue e attua la politica statale;
— il potere giudiziario, che giudica le controversie tra cittadini.
Questa teoria ha origine storiche ben precise e risale nella sua formulazione a Montesquieu (1748). Quest’autore notò, nel Settecento, che in alcuni Stati, e specialmente in Inghilterra, alla Corona e alla nobiltà, tradizionali detentori del potere governativo (che fu poi definito esecutivo), si afliancava un Parlamento, composto dai rappresentanti della borghesia, che controllava l’azione del potere governativo specialmente mediante lo strumento dell’approvazione dei bilanci che fornivano i mezzi per l’attività della Corona. E si affiancava inoltre la giurisdizione, formata in gran parte con uomini che provenivano anch’essi dalla borghesia e sottratta agli interventi sia del potere legislativo, sia del potere governativo. All’origine, dunque, la divisione dei poteri era una sorta di divisione dei compiti fra strati sociali, oltre che tra organismi pubblici.
6.6
In tempi successivi, il potere legislativo, con l’allargamento del diritto di voto, si estese e divenne, a poco a poco, il potere con maggiore legittimazione e più forte. Si estesero anche i suoi compiti, non più limitati a quelli di controllo dell’esecutivo. I Parlamenti eletti a suffragio più ampio divennero legislatori onnipotenti, estendendo l’ambito delle attività sottoposte alla loro disciplina e determinando anche gli indirizzi che il governo doveva seguire, tanto da trasformare il potere governativo in un potere subordinato.
Contemporaneamente, accadeva un fenomeno parallelo: le classi e i ceti detentori del potere di governo perdevano d’importanza, fino a perdere il privilegio del potere di governo. L’uguaglianza del diritto di voto e la sua estensione a ceti fino allora esclusi provocarono, cioè, un «livellamento» tra le varie categorie sociali.
Veniva, così, a mancare una delle basi su cui si reggeva la divisione dei poteri: la distribuzione del lavoro tra le varie categorie sociali.
A questo punto, la divisione dei poteri diventa una cosa diversa:
è solo un principio di distribuzione delle funzioni tra gli organi (o gli apparati), come s’è visto, nel definirla, all’inizio del paragrafo precedente. La divisione dei poteri è ancora oggi, in questi termini, un criterio di organizzazione dello Stato. Tuttavia essa non ha più un valore assoluto, ma relativo e tendenziale.
Caratteristiche della divisione dei poteri, oggi sono:
— la divisione tendenziale dei compiti tra gli organi di vertice;
— il reciproco bilanciamento e controllo tra tali organi.
S’è evitato, nella definizione sopra fornita, di fare riferimento ai tre poteri tradizionali (legislativo, esecutivo e giudiziario) perché negli ordinamenti moderni:
— da una parte, sono emerse altre funzioni, come quella costituente, quella di indirizzo politico e quelle neutrali;
— dall’altra, non è più vero che le tre funzioni (legislativa, esecutiva e giudiziaria) siano di spettanza esclusiva dei tre apparati (Parlamento, governo, giudici).
Esaminiamo, innanzitutto, le tre nuove funzioni.
Mentre negli ordinamenti precedenti la Costituzione, e cioè l’assetto di base dei poteri pubblici, o non era scritta o mutava col mutare delle leggi, negli ordinamenti moderni — e, in particolare, in Italia — vi è un potere superiore a quello legislativo: quello costituente. Come vedremo meglio più avanti, infatti, in Italia, ad esempio, la Costituzione e le leggi costituzionali hanno una forza superiore alle leggi ordinarie, perché adottate con particolari procedure. Ne consegue che esse non possono essere modificate se non ricorrendo alle stesse procedure.
t bene tener presente che si sta parlando qui del potere costituente in senso formale. E corrente, infatti, la distinzione tra:
— Costituzione in senso formale: è l’atto o gli atti che contengono le
regole fondamentali dell’ordinamento;
— Costituzione in senso materiale: è la situazione di fatto dei rapporti
tra gli organi fondamentali dell’ordinamento.
Come è evidente, ci si sta riferendo, in questo momento, al potere che è in grado di emanare gli atti definiti Costituzione in senso formale.
Il potere costituente si aggiunge ai poteri tradizionali (legislativo, esecutivo, giudiziario).
6.8
La funzione di indirizzo politico
Lo stesso si deve dire per la funzione di indirizzo politico. La formulazione tradizionale della divisione dei poteri lascia fuori quest’altro settore importante dell’attività statale. Vedremo più avanti l’importanza del programma di governo: è il programma di governo che elenca le leggi e gli altri provvedimenti che il governo intende prendere. Vedremo anche che vi sono altre attività che non possono essere classificate in nessuno dei tre tradizionali poteri, ma che ne rappresentano l’antecedente e li sovrastano. Vedremo che quasi tutti gli organi di vertice partecipano all’indirizzo politico, ma che quello che lo determina è il governo.
La funzione di indirizzo politico è strettamente collegata alla Costituzione. Essa risponde all’esigenza che la distribuzione dei vari compiti statali tra gli organi sia preceduta da un momento di riflessione unitaria. Ne consegue che sia la funzione costituente, di cui si è già parlato, che quella di indirizzo politico hanno rispetto alla tripartizione dei poteri una priorità logica e cronologica e una funzione integrativa.
La difficoltà dello studio della funzione di indirizzo politico risiede nella circostanza che, mentre i tre poteri legislativo, amministrativo e giurisdizionale, cui essa si affianca, si svolgono mediante atti tipici (leggi, atti amministrativi, sentenze), non esiste allo stato attuale un atto tipico di indirizzo.
La funzione di indirizzo politico, infatti, si attua attraverso atti di differente natura (direttive, presentazioni di disegni di legge, nomine alla diì-~zione di enti pubblici, decisioni in materia economica e finanziaria).
6.9
Le funzioni pubbliche neutrali e i poteri indipendenti
Negli ordinamenti contemporanei vi sono settori, come l’economia e le comunicazioni di massa, dove un intervento pubblico è necessario, ma si ritiene utile che esso non sia “di parte”. Si vuole, cioè, che l’intervento non rientri nell’ambito dell’indirizzo politico del governo, che sia da esso separato, quasi indipendente.
Per questo motivo, prima nel Regno Unito, poi negli Stati Uniti, quindi in Francia e in Italia, sono stati istituiti poteri indipendenti, definiti autorità, agenzie, commissioni, garanti, con compiti di tutela della concorrenza e del mercato, di controllo della borsa e del mercato dei valori mobiliari, di controllo della radiodiffusione e dell’editoria ecc. Questi..organismi non rientrano in nessuno dei tre poteri tradizionali. Emanano standard di condotta obbligatori che non sono leggi, né sentenze. Controllano settori dell’economia, ma non sono sottoposti a direttive governative e i componenti non sono — di regola — nominati dal governo.
Istituzioni di questo tipo aumentano il policentrismo proprio delle democrazie pluraliste di cui tratteremo più avanti.
6.10
Il rapporto fra le tre funzioni e gli apparati
S’è detto prima che non è più vero che le tre funzioni tradizionali spettino in via esclusiva ai tre apparati. Per comprendere meglio, facciamo due esempi.
Il governo, secondo criteri e con limiti che esamineremo, può emanare atti con forza di legge. Ma anche i Consigli regionali hanno potere legislativo. Ciò vuol dire che la funzione legislativa non appartiene al solo Parlamento.
Al giudice è affidata l’attività amministrativa di protezione degli interessi di persone che non hanno piena capacità di intendere e di volere, come minori, interdetti, inabilitati (cosiddetta volontaria giurisdizione). Ciò vuoi dire che la funzione esecutiva non appartiene solo al governo e all’amministrazione.
Appare evidente, da questi esempi, che non vi è una perfetta identificazione fra funzioni e organi o apparati chiamati a svolgerle (legislativo - Parlamento, esecutivo - governo e amministrazione, giudiziario - giudici).
Il dualismo Stato e società civile, autorità e libertà:
origine storica
Se la divisione dei poteri è la formula organizzativa principale dello Stato moderno, l’opposizione tra Stato e società civile è il modello al quale si ispirano i suoi rapporti con la collettività. Così come abbiamo visto che il principio della divisione dei poteri ha oggi una validità solo parziale, vedremo che la contrapposizione Stato-società civile è anch’essa solo in parte un dato caratteristico dell’ordinamento.
Per comprendere il dualismo Stato-società civile bisogna, anche in questo caso, vederne l’origine storica e ricordare che esso fu formulato nell’Ottocento quando, da una parte, le Costituzioni non assicuravano tutte le libertà fondamentali; dall’altra, lo Stato era una piccolissima parte dell’ordinamento (per avere un’idea delle sue dimensioni, si ricorda che i suoi dipendenti oscillavano intorno allo 0,5% della popolazione).
In questa situazione, fu formulata la teoria secondo la quale lo Stato, che rappresenta l’autorità, è in conflitto permanente con la società civile, costituita dai cittadini in lotta per la libertà. Lo Stato tende a comprimere le libertà, la società ad ampliarle.
6.12
Modificazioni successive. Collaborazione Stato-cittadini
Come si è accennato, molte cose sono, successivamente, mutate.
i. Non vi è più una separazione così netta tra Stato e società civile. Questi non sono più corpi separati tra loro. Si ricordi che, in Italia, i dipendenti pubblici sono oggi il io% della popolazione. Si aggiunga che gran parte del potere è esercitato da organismi elettivi: sono tali (dagli organismi minori a quelli maggiori) circoscrizioni, Comuni, Province, Regioni, Stato. Se Stato vuoi dire autorità, questa si è diffusa su un gran numero di persone.
~. Accanto ai rapporto di opposizione Stato-cittadino (che si riscontra, ad esempio, nel diritto di polizia), si affaccia un altro tipo di rapporto, nel quale lo Stato, da una parte, svolge una funzione non negativa ma positiva e, dall’altra, opera a favore dei privati. Ad esempio, eroga servizi pubblici, concede finanziamenti a tassi agevolati ecc.
Si può, dunque, dire che poteri pubblici e cittadini sono, oggi, in rapporti diversi, che non sono necessariamente di conflitto. Accanto alle attività tradizionali dello Stato (ordine pubblico, difesa e rapporti internazionali, prelievo fiscale), ve ne sono altre, in ordine alle quali si verificano anche fenomeni di collaborazione fra Stato e cittadini.
6.13
Democrazia diretta e democrazia indiretta (o delegata)
Come s’è detto per il principio della divisione dei poteri, anche per la contrapposizione Stato-società civile deve aggiungersi che questa non è scomparsa, si è solo andata attenuando. Infatti, non solo rimangono settori nei quali il potere pubblico agisce necessariamente come autorità (ad esempio, l’ordine pubblico), ma anche là dove esso agisce come erogatore di beni o servizi a favore di privati si creano talvolta nuove forme di autorità.
Un modo per diminuire il distacco che si crea tra Stato e cittadini è costituito dagli strumenti di democrazia indiretta: in primo luogo, dall’elezione dei titolari degli organi principali dello Stato. Gli ordinamenti moderni (e così anche quello italiano) circondano le elezioni di una serie di minute garanzie (le vedremo, in particolare, quando si parlerà del corpo elettorale e del sistema elettorale), per assicurare che esse svolgano il compito di unione tra Stato e società.
Più difficile è la democrazia diretta, che non opera tramite altre persone (gli eletti), ma consente alla stessa società civile di prendere
le decisioni che la riguardano. Questa, però, può realizzarsi in ordinamenti ristretti (ad esempio, in Svizzera), mentre incontra difficoltà notevoli in ordinamenti con decine di milioni di cittadini. Vedremo però che, pur con molte cautele, nel nostro ordinamento è stato introdotto, dalla Costituzione, il referendum o deliberazione popolare diretta.
6.14
Le forme di Stato: evoluzione storica dei tipi di Stato
Esaminata la nozione di Stato e le sue varie componenti, passiamo ora ad analizzarne le varie specie. Gli Stati possono essere più o meno accentrati, più o meno democratici, più o meno autoritari ecc. Le diversità sono molte, perché l’assetto degli Stati dipende dalla classe dirigente, dalle tradizioni, dalle condizioni economiche del Paese, dai vincoli internazionali ecc. Per ragioni di comodo, tuttavia, gli studiosi hanno isolato alcuni elementi caratteristici, costruito alcuni tipi ideali e confrontato gli Stati con tali tipi. È in tal modo che sono classificate le forme di Stato. È bene avvertire, tuttavia, che i tipi o forme di Stato sono modelli ideali, ai quali gli Stati realmente esistenti si avvicinano, senza però identificarsi completamente con essi.
L’esposizione delle forme di Stato sarà divisa in due parti. Nella prima, esamineremo i tipi di Stato che si sono andati affacciando in passato, nel corso della storia; nella seconda, i tipi di Stato prevalenti oggi.
Le specie principali che si sono succedute nel tempo sono le seguenti: lo Stato patrimoniale, lo Stato di polizia, lo Stato di diritto, lo Stato sociale. Passiamo ora in rassegna questi tipi, indicandone le epoche e i tratti distintivi.
La forma dello Stato patrimoniale si affaccia e consolida nella prima fase della formazione dello Stato moderno (Cinquecento-Settecento). Nello Stato patrimoniale gli istituti e aspetti principali dello Stato sono ancora regolati dal diritto privato. La persona fisica del monarca non si distingue dalla persona giuridica-Stato. I sudditi sono legati a lui da un vincolo contrattuale. Bilancio del re e bilancio dello Stato non sono ancora divisi. I funzionari sono funzionari del re, non dello Stato. Lo stesso potere sui territorio spetta al monarca, in quanto il territorio gli appartiene a titolo di proprietà. In questa fase, dunque, non s’è ancora formato un diritto pubblico, che regola lo Stato, separato e diverso dal diritto privato.
Nel Settecento. si sviluppa in Austria, Prussia, Spagna e Francia lo Stato di polizia. Questa espressione non vuoi dire che si tratta di uno Stato poliziesco; essa indica che si tratta di uno Stato che si occupa di tutti gli aspetti della vita collettiva (“polizia” deriva, infatti, dal greco politeia, termine coi quale si fa riferimento al potere e alle funzioni pubbliche). Lo Stato di polizia allarga, quindi, la sua attività a campi prima lasciati alla sfera privata, e regola la religione, la sanità, la sicurezza, le opere pubbliche e la viabilità, l’industria, l’agricoltura.
Tutti i tipi di Stato, fino a questo punto, sono Stati assoluti, nel senso che la volontà del sovrano prevale su quella dei sudditi. Nell’Ottocento, invece, si afferma lo Stato di diritto o Stato liberale, che riconosce e tutela, in sede costituzionale e in via amministrativa, i diritti dei cittadini. Questi vengono sempre più frequentemente, in quest’epoca, sanciti dalle Costituzioni. Si diffonde la divisione dei poteri, in modo da non concentrare tutto il potere in una sola mano ed evitare, quindi, arbitrii, consentendo che un potere controlli l’altro.
L’amministrazione (il potere esecutivo), che dispone di fatto dei maggiori poteri, viene sottoposta alla legge e al controllo dei giudici:
essa deve agire secondo le prescrizioni legislative (principio di legalità, sui quale torneremo) e i suoi atti possono essere impugnati dal giudice amministrativo che ha il potere di annullarli.
L’ultimo sviluppo è quello che conduce, tra la fine del secolo scorso e quello presente, allo Stato sociale. Lo Stato di diritto o liberale si preoccupava degli aspetti fondamentali della vita collettiva, ma lasciava libera l’industria, l’agricoltura e il commercio (principio del non intervento nell’economia). Le forze economiche e sociali, abbandonate a se stesse, senza correttivi, producevano però distorsioni e diseguaglianze. Di qui l’affermarsi dello Stato sociale che, disciplinando, per legge, economia e società, riduce o corregge gli squilibri economici e sociali e assicura l’eguaglianza. Questo intervento è una delle caratteristiche dello Stato nel quale viviamo e, quindi, su questi aspetti torneremo più avanti.
Le principali forme di Stato attuali
Le principali forme di Stato attuali sono:
a) in relazione all’equilibrio e alla distribuzione dei poteri pubblici sul territorio, unitarie, federali e regionali;
b) in relazione ai rapporti tra società e Stato, democratiche e autoritane;
c) in relazione all’assetto dei rapporti economici, capitalistiche e socialiste.
Gli Stati unitari (di cui il principale esempio è stato a lungo la Francia; peraltro, in questo Paese sono state recentemente introdotte 22 Regioni) sono caratterizzati da un apparato amministrativo centrale e periferico dipendente, in larghissima parte, dal governo centrale, posto nella capitale. Gli Stati federali, invece, sono costituiti da Stati membri (o Stati federati) e da uno Stato federale. Gli Stati membri mantengono la loro supremazia nel proprio ambito (cosiddetta sovranità interna). Solo lo Stato federale, però, agisce all’esterno per la difesa e i rapporti internazionali (cosiddetta sovranità esterna). Sono Stato federale gli Stati Uniti d’America (USA). Gli Stati regionali costituiscono una forma intermedia: il potere è distribuito, all’interno, tra enti detti Regioni, con organi elettivi e autonomi; al centro, però, vi è uno Stato con poteri di indirizzo e coordinamento, che si riserva la maggior parte delle funzioni pubbliche. L’Italia ha, a partire dal 1970, una struttura regionale.
Occorre avvertire che le differenze tra i due tipi esposti si sono andate molto attenuando, nei fatti. Ad esempio, negli Stati Uniti il governo federale ha propri uffici nel territorio degli Stati membri, invadendo, quindi, la cosiddetta sovranità interna di questi. Gli Stati unitari, a loro volta, riconoscono e garantiscono forme di autonomia subregionale, come quella dei Comuni e delle Province.
Gli Stati democratici sono caratterizzati dalla composizione rappresentativa degli organi deliberativi (il Parlamento) e, quindi, dalla sovranità popolare. Peraltro, vi sono Stati che, pur ammettendo l’elettività del Parlamento, non consentono a tutte le persone fisiche al di sopra di una certa età di partecipare alle votazioni (cosiddetto suffragio limitato o ristretto). L’elezione popolare del Parlamento, però, non basta. Occorrono anche altri elementi per caratterizzare uno Stato come democratico: libertà di formazione e di iscrizione ai partiti, libertà di stampa, libertà di manifestazione del pensiero ecc. Gli Stati non democratici si definiscono autoritari. Di solito, gli Stati autoritari sono retti da una persona o da un gruppo di persone non elette (dittatore, giunta militare ecc.), che controllano il potere esecutivo e lasciano scarsa o nessuna libertà.
Gli Stati democratici (più di quelli autoritari) presentano molte varianti. Tra gli Stati democratici vanno segnalate, in particolare, le democrazie pluraliste. Queste integrano il rapporto governanti-governati, stabilito con le elezioni, con un sistema di poteri contrapposti (detti anche controlli e contrappesi o contropoteri). Essi servono ad arricchire la democrazia, ma anche a temperarla, perché anche una maggioranza democraticamente eletta può trasformarsi in una dittatura elettiva.
Gli ultimi tipi di Stato sono quelli capitalistico e socialista. Si definiscono capitalistici gli Stati caratterizzati dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e, in particolare, delle imprese. Peraltro, in molti Stati capitalistici, come quello italiano, accanto a un settore economico privato, vi è un più o meno esteso settore economico pubblico, costituito da imprese nazionalizzate, da società con partecipazione statale, da imprese municipalizzate. Negli Stati socialisti, l’economia è quasi interamente controllata dallo Stato. Questo è proprietario, di regola, di terreni, impianti ed edifici, gestisce direttamente le imprese; programma, dal centro, con piani quinquennali, le attività economiche. Anche negli Stati socialisti, peraltro, vi sono, sia pur in ambiti molto limitati, diritti economici dei privati. Ad esempio, questi possono essere proprietari, a titolo individuale, di un’abitazione e possono avere, a titolo individuale o collettivo (e cioè insieme con altri), terreni produttivi a uso agricolo.
Peraltro, anche la contrapposizione tra Stati capitalistici e Stati socialisti si va attenuando. Non solo — come s e detto — nei primi vi sono proprietà e imprese pubbliche ma, in essi, si sono diffusi strumenti pubblici di controllo e direzione di attività private. Basti ricordare che, negli Stati capitalistici, organi pubblici centrali stabiliscono programmi per l’economia, guidano e controllano il credito, fissano d’autorità. il prezzo di alcuni beni, controllano l’edificazione dei suoli ecc.
La contrapposizione tra Stati capitalistici e Stati socialisti, inoltre, ha perduto l’interesse che aveva con la dissoluzione della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) e l’introduzione in Russia dell’economia di mercato. Per cui, a parte alcuni paesi marginali, come la Corea del Nord, un esempio di Stato socialista è oggi solo la Repubblica popolare cinese (che, a sua volta, si è decisamente avviata verso l’introduzione di un’economia di mercato).
6.16
Le Caratteristiche dello Stato italiano
Viste le nozioni e i cosiddetti elementi costitutivi dello Stato, nonché i diversi tipi di Stati, esaminiamo le caratteristiche dello Stato italiano o — come si dice di solito — la forma di Stato vigente oggi in Italia. Lo Stato italiano è:
— repubblicano. Ciò vuol dire che capo dello Stato è una persona eletta periodicamente e non un membro di una famiglia (detta casa regnante o casa reale). Come si è visto, la Costituzione, nell’ultimo articolo, dispone che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale»;
— democratico. L’art. i della Costituzione dice: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». È democratico un ordinamento governato dal popolo. A esso sono attribuiti diritti (di voto, ad esempio) e libertà (di manifestazione del pensiero, ad esempio). L’opposto di uno Stato democratico è lo Stato autoritario, quale si ebbe, in Italia, durante il periodo fascista: lo Stato autoritario limita le libertà, toglie la sovranità al popolo e rafforza l’autoritarismo dei poteri pubblici;
— regionale. È tale perché, oltre allo Stato centrale, vi sono in periferia venti Regioni, che sono, come lo Stato, enti pubblici, governati da corpi elettivi, con potere legislativo;
— pluralista. E tale perché la Costituzione, con l’art. 2, fa carico alla Repubblica di garantire «le formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’uomo». In passato, nelle Costituzioni erano considerati solo gli individui, ai quali soltanto si garantivano diritti nei confronti dello Stato (cosiddetto individualismo). La Costituzione italiana garantisce anche i gruppi e le formazioni sociali.
Quest’ultima caratteristica (pluralismo sociale) è accentuata grazie al pluralismo politico (indipendenza dell’ordine giudiziario; esistenza di un giudice delle leggi — la Corte costituzionale —; esistenza di poteri indipendenti ecc.). Grazie al pluralismo politico, l’attività pubblica non è tutta attratta nella sfera di influenza del governo.
6.17
Lo Stato e gli altri ordinamenti: Stato e Chiesa
Per la sussistenza di una molteplicità di ordinamenti (già illustrata quando s’è parlato della pluralità degli ordinamenti giuridici), gli Stati sono in rapporto continuo con altri sistemi giuridici. Di questi, hanno un’importanza particolare la Chiesa e l’ordinamento internazionale.
I rapporti tra lo Stato e la Chiesa possono ispirarsi ai seguenti
principi:
— laicità, o irrilevanza per lo Stato dei rapporti con le confessioni
religiose;
— confessionalismo, è l’opposto della laicità e si ha quando lo Stato
sceglie come propria una certa religione;
— giurisdizionalismo, quando lo Stato ritiene rilevante il fenomeno
religioso e lo disciplina, di solito con legge, unilateralmente;
— regime concordatario, quando lo Stato ritenendo rilevante il fenomeno religioso, stabilisce accordi bilaterali (detti concordati) con la
Chiesa, per, regolare i rapporti relativi.
6. 18
L’articolo 7 della Costituzione
La materia, in Italia, è disciplinata dall’art. ~“ della Costituzione, che fu adottato al termine di un lungo e appassionato dibattito all’Assemblea costituente. L’art. “ contiene tre disposizioni.
i. «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»: ciò vuole dire che lo Stato rifiuta il confessionalismo e accetta che vi siano sfere separate, quella della Chiesa e quella propria.
2. I rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi, oggi modificati. Questa è la parte più discussa della norma. I Patti Lateranensi furono firmati l’i i febbraio 1929 (“conciliazione” tra Stato e Chièsa) e consistono di un trattato che riguarda lo Stato della Città del Vaticano e la sua sovranità; una convenzione finanziaria, per risarcire i danni subiti dalla Santa Sede; un concordato, per regolare le condizioni della religione e della Chiesa in Italia. La Corte costituzionale, nell’interpretazione data finora di questa parte dell’art.7 ha escluso che il rinvio ai Patti Lateranensi abbia voluto “costituzionalizzarli”; ne discende che il Concordato non può rinnegare i principi costituzionali dello Stato. Ad esempio, era contrastante con la Costituzione (e poteva, quindi, essere dichiarato illegittimo costituzionalmente) l’art. i del Concordato, secondo il quale «la religione cattolica è la sola religione dello Stato». Il Concordato è stato modificato nel 1984. Il nuovo trattato ha rivisto gli effetti civili dei matrimoni religiosi contratti o annullati e l’insegnamento della religione cattolica. All’insegnamento obbligatorio della religione cattolica, considerata la sola religione di Stato, si sostituisce il principio del diritto di scelta degli alunni.
«Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». Esistono, cioè, due tipi di modificazioni dei Patti Lateranensi: quelle fatte d’accordo tra Stato e Chiesa (che non richiedono modificazioni della Costituzione); quelle unilaterali, che, però, richiedono l’abrogazione del comma 2° dell’art. 7, con la procedura particolarmente complessa — di revisione costituzionale che sarà esaminata più avanti.
6.19
Stato e ordinamento internazionale
La Costituzione (art. II) prevede che l’Italia:
· consenta, a condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni;
· promuova e favorisca le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.
È su questa base che lo Stato italiano stringe accordi con altri Stati e dà vita a organizzazioni internazionali.
Prima di parlare delle principali istituzioni internazionali, tuttavia, occorre soffermarsi, in generale, sulla crescente internazionalizzazione della vita pubblica.
Per non parlare dello sviluppo internazionale avuto dal settore imprenditoriale, con l’affermarsi di imprese dette multinazionali perché operanti su molti mercati nazionali, si segnalano qui i due aspetti più rilevanti del settore pubblico.
In primo luogo, mentre una volta l’unico ministero che aveva rapporti con l’estero era il ministero degli Affari esteri, ora, in Italia e in quasi tutti gli altri Paesi moderni, si può dire che tutti gli apparati centrali abbiano rapporti con l’estero. Ad esempio, il ministero delle Risorse agricole, alimentari e forestali ha rapporti con la Comunità economica europea, perché questa interviene nel campo agricolo. Il ministero delle Poste e Telecomunicazioni ha continui rapporti internazionali, direttamente e tramite l’Unione postale universale. Lo stesso può dirsi per il ministero della Difesa, specialmente per la difesa del nord Atlantico, tramite la North Atlantic Treaty Organization (NATO), di cui si parlerà più avanti. Il ruolo internazionale delle burocrazie nazionali è fenomeno non solo italiano, ma generale. Basti ricordare che tutti i 13 Departments (ministeri) del governo federale degli Stati Uniti d’America risultano impegnati, in maggior o minore misura, in rapporti internazionali.
Il secondo aspetto è quello del crescente numero delle organizzazioni internazionali. Queste, fino alla fine dello scorso secolo erano23. Nel 1940 erano salite a 82. Sono ora diverse centinaia. Dopo il 1945, i membri delle organizzazioni internazionali (che sono, di solito, ma non sempre, gli Stati) sono cresciuti del 4-5% ogni anno.Organizzazioni internazionali vengono istituite per molti motivi. Il primo è quello di assicurare una sede permanente di discussione e di coordinamento degli Stati. I rappresentanti di questi ultimi potrebbero anche incontrarsi periodicamente, di loro iniziativa. Ma preferiscono avere una sede permanente, un segretariato, regole stabilite una volta per tutte. Costituiscono, quindi, un’istituzione internazionale.Il secondo motivo dell’istituzione di organizzazioni internazionali
- è quello dell’interdipendenza. Questa è particolarmente evidente nel caso del commercio, dove, infatti, operava il GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) ora divenuto World Trade Organization (wTo).
Terzo motivo è quello tecnico. Quando si sviluppano nuove funzioni, come il trasporto aereo e l’uso degli spazi mediante satelliti, sorge il bisogno di regolare i rispettivi settori e di istituire un autorità che disciplini l’uso dello spazio aereo e dell’etere.
Infine, in altri casi, vengono istituite organizzazioni internazionali devolvendo loro funzioni che erano precedentemente degli Stati. Ad esempio, nell’area europea, gli interventi agricoli sono stati in parte trasferiti alla Commissione della Comunità economica europea e quelli di controllo della moneta agli organi dello SME (Sistema monetario europeo).
L’istituzione e la crescita di organizzazioni internazionali servono anche a far fronte ai cambiamenti che si producono sul mercato. Infatti, con l’allargarsi dei mercati e lo sviluppo di imprese multinazion~li, gli Stati divengono sempre più inadeguati a esercitare controlli dell’economia nazionale. Accade frequentemente, ad esempio, che un’imt5resa multinazionale utilizzi profitti realizzati in un Paese per appoggiare finanziariamente impianti e filiali operanti in altri Paesi. Di qui un’asimmetria tra Stato, vincolato dai confini nazionali, e imprese multinazionali, che si muovono in più Paesi. E, quindi, l’esigenza di istituire organizzazioni internazionali.
Si è fin qui spiegata la genesi delle organizzazioni internazionali. Si aggiunge ora qualche elemento relativo alla loro struttura.
In primo luogo, esse hanno spesso carattere generale, comprendono cioè tutti gli Stati; ma hanno — talora — carattere regionale, perché comprendono solo gli Stati di particolari zone, come la Comunità economica europea, che comprende solo Paesi europei.
In secondo luogo, le organizzazioni internazionali hanno, di solito, una struttura così composta: un’Assemblea o altro organo, in cui sono rappresentati tutti gli Stati membri dell’organizzazione; un Consiglio, in cui siedono membri eletti dall’assemblea; un segretariato, con a capo un segretario e uffici permanenti dipendenti, che assicurano la continuità dell’attività esecutiva.
In terzo luogo, presso le organizzazioni internazionali, di solito nell’ambito del segretariato, prestano la propria opera, in modo continuativo, dipendenti che sono chiamati funzionari internazionali. Essi, pur essendo cittadini di questo o quello Stato, si obbligano a essere fedeli all’organizzazione internazionale nella quale lavorano.
La crescita dei poteri pubblici internazionali presenta quattro caratteristiche. In primo luogo, alle tradizionali organizzazioni internazionali, operanti come forum, si aggiungono organizzazioni internazionali erogatrici di servizi. Le prime hanno come scopo primario quello di assicurare una cornice per la cooperazione, la collaborazione e la negoziazione tra i governi nazionali. Le seconde, invece, hanno come scopo primario la formulazione di programmi destinati ad essere realizzati all’interno degli Stati. Esse svolgono attività direttamente e assicurano servizi che ciascun singolo Stato non potrebbe fornire.
In secondo luogo — e come conseguenza della prima caratteristica
— questo tipo di organizzazioni internazionali non consta — come il primo tipo — solo di organi costituzionali, assistiti da un segretariato. Esse hanno compiti amministrativi e, quindi, anche corpi amministrativi chiamati a svolgerli. Questi corpi amministrativi non operano in funzione dei corpi costituzionali dell’organizzazione (ciò che, invece, accade nelle organizzazioni internazionali agenti come forum, dove il segretariato è in funzione dell’Assemblea). I corpi amministrativi delle organizzazioni internazionali di servizio sono funzionali — invece —all’esplicazione dei servizi che sono chiamati a svolgere.
In terzo luogo, si produce una nuova dislocazione di poteri, consistente nella internazionalizzazione di compiti, prima statali. Ma tale internazionalizzazione non avviene nei termini propri della devoluzione o del conferimento di intere materie da un corpo amministrativo ad un altro (come, per esempio, nel caso dei trasferimenti di materie dagli Stati alle Regioni). Nel caso delle organizzazioni internazionali di servizi, queste assumono compiti non esclusivi ma, in qualche modo, di integrazione, inquadramento di compiti statali. Le loro funzioni, quindi, sono meno “visibili”. Gli Stati sembrano conservare le loro prerogative sovrane, anche se ne cedono quote rilevanti. La prova consiste nel fatto che, anche se quantitativamente gli Stati nazionali e le loro amministrazioni rimangono detentori di una notevole porzione di compiti, qualitativamente questi si riducono — per lo più — alla fase esecutiva, che è predeterminata dalle direttive adottate in sede internazionale.
La quarta caratteristica di questa straordinaria crescita dei corpi amministrativi internazionali è quella di estendersi a moltissimi settori, nei quali, secondo un criterio diverso da quello proprio dei poteri pubblici statali, vengono creati tanti organismi quanti sono i compiti.
Basti dire che esistono organizzazioni amministrative internazionali nei settori della difesa, del controllo dei cambi e della moneta, della polizia, delle ferrovie, del servizio postale, della sanità, del trasporto aereo e di quello marittimo, della piattaforma marina, dello spazio, della meteorologia, dell’energia, del lavoro, delle politiche sociali, del commercio, dello sviluppo economico, della scienza, dell’energia nucleare ecc. Orbene, per tutti questi settori, allo scopo di curare i compiti amministrativi che possono essere definiti di livello internazionale, esistono istituzioni ad hoc.
A sua volta, la crescita dei poteri pubblici internazionali pone ulteriori problemi agli Stati, nel senso che questi ultimi — se riconquistano il controllo perduto — perdono altri spazi.
Innanzitutto, gli Stati perdono la loro unità. Essi, nell’arena internazionale, agiscono solitamente come un’unità. Questa è assicurata dal controllo che “uffici ad hoc” (ministeri degli Affari esteri) esercitano sulla politica estera degli Stati.
Quando — però — si sviluppano organizzazioni internazionali del tipo prima ricordato, gli Stati nazionali perdono il controllo unitario delle relazioni internazionali. E infatti, i ministeri degli Affari esteri debbono rimettersi alle organizzazioni domestiche specialistiche, che scavalcano i centri unitari chiamati a mantenere i rapporti con l’estero.
Vengono, così, a costituirsi moltissimi intrecci tra organizzazioni specializzate nazionali e internazionali. Si sviluppano legami diretti fra unità interne dei diversi Stati e organismi internazionali, non controllati dai responsabili della politica estera.
L’effetto di questi sviluppi è un grande pluralismo, maggiore indipendenza e — paradossalmente — una crescente interdipendenza. Ma il principale effetto è la perdita di unità degli Stati, che vengono a presentarsi come un agglomerato di apparati amministrativi specializzati, con rapporti diretti nell’arena internazionale.
Il secondo effetto è legato al primo: si tratta del crescente ruolo internazionale delle burocrazie domestiche. A mano a mano che le amministrazioni internazionali si sviluppano, un numero crescente di uffici amministrativi nazionali è coinvolto — come già notato — in rapporti internazionali e stabilisce relazioni dirette con organizzazioni internazionali. Diventa quindi difficile tracciare una netta linea di distinzione tra problemi nazionali e problemi internazionali o tra problemi domestici e problemi esteri, perché essi sono tra di loro legati. Vi è continuità tra politica interna e politica estera. Diventa sempre più difficile definire e realizzare una onnicomprensiva e coordinata politica estera statale. Burocrazie domestiche che prima giocavano un ruolo soltanto negli affari interni si trasformano in “attori” internazionali e i rapporti tra burocrazie domestiche e amministrazioni internazionali diventano importanti quanto le relazioni diplomatiche tra gli Stati di una volta.
Dall’altro lato — come già rilevato — i corpi diplomatici perdono il monopolio degli affari esteri, così come i ministri degli Esteri perdono il comando della politica estera, mentre guadagnano, in certa misura, il controllo su problemi interni, di cui debbono interessarsi per le implicazioni internazionali. Governatori di banche centrali, militari, alti funzionari diventano i “nuovi ambasciatori”, e nei ministeri si sviluppano uffici ad hoc per il controllo dei rapporti con le organizzazioni internazionali.
Questa interdipendenza tra amministrazioni nazionali e internazionali obbliga gli Stati nazionali ad adattarsi alla dispersione del potere. Nessun paese è, infatti, riuscito a semplificare questa rete intricata, prodotta dal crescente coinvolgimento degli uffici dei governi nazionali degli Stati in questioni internazionali, sia pure di settore.
Questa “esposizione” dell’intera struttura amministrativa dello Stato alle organizzazioni internazionali raggiunge il suo acme quando queste ultime stabiliscono direttamente quale ufficio dello Stato sia competente a trattare con loro. È il caso, ad esempio, dell’atto istitutivo del Fondo monetario internazionale o del Trattato sull’Unione europea.
Si è notato che più le amministrazioni nazionali sono coinvolte in rapporti con organizzazioni internazionali, meno gli Stati possono agire come soggetto unitario. Bisogna aggiungere che vi è non solo una moltiplicazione degli uffici pubblici che agiscono nell’arena internazionale, ma anche un crescente numero di punti di intersezione tra uffici nazionali e internazionali. Il risultato è che gli Stati cercano di influenzare le organizzazioni internazionali per quanto possono, ma appaiono deboli e scoordinati. Giuridicamente, essi sono un soggetto unitario, che parla con una voce sola nell’arena internazionale. Di fatto, essi agiscono come una sorta di federazione di uffici interni.
Per risolvere i problemi ora esposti, gli Stati ricorrono a numerosi accorgimenti. Il primo è quello costituito dai tentativi di coordinamento interno. Ma anche questo accorgimento funziona dove gli apparati amministrativi statali sono particolarmente omogenei. E più difficile da attuare dove non vi è omogeneità, perché la linea di distinzione tra competenza principale e competenza secondaria è spesso difficile da tracciare.Il secondo accorgimento è quello costituito dall’istituzione delle “delegazioni nazionali” degli Stati presso le organizzazioni internazionali. Queste riflettono la struttura dipartimentale interna degli Stati e agiscono come mediatori tra i governi nazionali e le organizzazioni internazionali. Ogni comunicazione tra l’amministrazione nazionale e l’organizzazione internazionale passa attraverso il rappresentante permanente o “delegato”. La struttura della delegazione o missione è —di regola — simile a quella di una ambasciata. La delegazione agisce non solo come rappresentanza degli interessi nazionali rispetto alle organizzazioni internazionali, ma anche nel senso opposto, come portatrice degli interessi delle organizzazioni internazionali rispetto al governo nazionale rappresentato.
Un terzo modo per controllare la situazione è quello consistente nell’istituzione di organismi intermedi, che agiscono come stanze di compensazione tra amministrazioni nazionali e internazionali. L’esempio più noto è quello di “comitati» istituiti presso la Commissione della Comunità europea. Il loro numero è stato stimato in circa seicento. Essi sono composti di rappresentanti delle amministrazioni nazionali di settore. Sono presieduti da un funzionario della Commissione. La Commissione assicura anche gli uffici di segreteria. L’aspetto caratteristico di questi organismi è che essi riproducono l’elemento intergovernativo all’interno della Commissione che costituisce, invece, l’elemento sovranazionale della Comunità europea. L’azione di questi comitati è molto complessa. Essi servono, da un lato, alla Commissione per conoscere la situazione esistente, settore per settore, problema per problema, nei singoli Stati e per assicurarsi un legame e un sostegno delle amministrazioni che dovranno dare esecuzione alle decisioni comunitarie. Dall’altro, i comitati servono le amministrazioni nazionali che riescono, attraverso di essi, a tenere sotto controllo il processo di formazione delle decisioni comunitarie.
Questi rimedi producono una crescente “interpenetrazione” tra i diversi livelli, quello nazionale e quello sovranazionale, provocando un’ulteriore fuga dagli Stati.
6.20
Le Nazioni Unite
La maggiore organizzazione internazionale è l’ONU (Organizzazione delle nazioni unite), con sede a New York. Essa è aperta a tutti i Paesi che perseguono fini di pacifica collaborazione ed è volta a mantenere la pace e a risolvere le controversie internazionali, In breve volgere di anni l’ONU è divenuta un’organizzazione a carattere universale (attualmente quasi tutti gli Stati del mondo ne fanno parte: gli Stati membri sono 184).
I principali organi dell’ ONU sono:
— l’Assemblea generale, composta da tutti gli Stati membri, ciascuno dei quali dispone di un solo voto;
— il Consiglio di sicurezza, costituito dagli Stati membri, nel quale cinque Stati (usa, Russia, Francia, Inghilterra e Repubblica popolare cinese) hanno un seggio permanente, mentre gli altri cambiano periodicamente;
— il segretario generale, che è allo stesso tempo un organo dotato di poteri autonomi (in materia di mantenimento della pace e della sicurezza) e il capo dell’apparato amministrativo dell’Organizzazione.
Nell’attuare la loro finalità principale (il mantenimento della pace) le Nazioni Unite hanno svolto un’azione meritoria, pur se frammezzo a molte e gravi difficoltà politiche e finanziarie. La guerra fredda impedì l’attuazione del sistema coercitivo previsto dallo Statuto dell’Organizzazione. Secondo tale sistema gli Stati membri, in virtù di accordi specifici, avrebbero dovuto mettere a disposizione dell’ONU contingenti militari, che sarebbero divenuti le forze permanenti dell’Organizzazione, sotto la direzione di un Comitato di Stato maggiore (composto dai capi di Stato maggiore delle cinque grandi potenze: i membri permanenti del Consiglio di sicurezza), a sua volta sottoposto al controllo politico-militare del Consiglio di sicurezza (è da notare che malgrado il recente declino della guerra fredda, il sistema in questione non è stato ancora realizzato e forse non lo sarà mai, sia a causa della sua intrinseca contraddittorietà, sia per il persistere di una serie di circostanze politiche e militari che ne rendono difficile l’attuazione).
Per supplire al fallimento del sistema di sicurezza previsto dallo Statuto, le Nazioni Unite hanno fatto ricorso a due meccanismi diversi. Anzitutto, esse hanno istituito le «operazioni per il mantenimento della pace” (peace-keeping operations), consistenti nell’invio di forze armate messe a disposizione, su una base ad hoc e per finalità limitate, da vari Stati membri (sono i famosi “caschi blu”). Basti menzionare, al riguardo, i numerosi interventi, che vanno da quelli nel Medio Oriente (1936-37, 1967-73, 1973-79) a quelli nel Congo (1960-62) e a Cipro (dal 1964), fino ai recenti interventi (dal 1992)
in Cambogia, nella ex Jugoslavia e in Somalia, nonché in Rwanda (1994). Queste operazioni presentano i seguenti caratteri.
i. Normalmente l’organo che dirige le operazioni è il segretario generale, che agisce però su istruzioni del Consiglio di sicurezza.
2. Le forze armate in questione intervengono con il consenso dello Stato sul cui territorio è scoppiato il conflitto.
3. Funzioni principali delle “forze” sono quelle di porre termine al conflitto, separare i belligeranti e “congelare” la situazione fino al raggiungimento di una soluzione politica.
4. Quelle forze armate possono ricorrere alle armi solo per legittima difesa (eccezioni al riguardo si sono avute nei casi del Congo, della ex Jugoslavia e della Somalia). È evidente che uno dei vari e gravi limiti di queste “operazioni” risiede nel fatto che l’ ONU può vedersi privata delle forze armate di cui dispone, che possono, in qualsiasi momento, essere richiamate dallo Stato nazionale, paralizzando così tutta l’azione dell’Organizzazione.
Un altro tipo di intervento consiste in ciò: il Consiglio di sicurezza autorizza gli Stati membri ad usare la forza contro uno Stato colpe~ole di aggressione o di violazione della pace. I casi più significativi sono quelli della Corea (1950-51) e dell’Iraq (‘99’).
Di recente si è avuta una sorta di combinazione dei due sistemi:
gli Stati membri sono stati autorizzati ad intervenire, e successivamente le loro forze armate sono state inquadrate in quelle ONU o sostituite da quelle ONU (Somalia, Rwanda), oppure gli Stati membri vengono autorizzati a usare la forza a sostegno dell’azione delle forze ONU (caso dell’ex Jugoslavia, dove l”’ombrello aereo” NATO Serve a proteggere le forze ONU e a dissuadere i belligeranti da ulteriori violazioni).
Mentre in questo campo l’azione dell’ ONU ha incontrato numerosi limiti, in altri settori appare assai meritoria. Basti segnalare il ruolo dell’Organizzazione nel promuovere l’accesso dei Paesi coloniali all’indipendenza (fenomeno che si è verificato tra il 1950 e il 1963), l’opera imponente svolta — a livello normativo e di controllo — nel campo dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli, nonché l’azione di codificazione e sviluppo del diritto internazionale, promossa instancabilmente e con esiti notevolissimi.
Esistono, poi, numerose organizzazioni mondiali collegate all’ ONU che si occupano di specifici settori.
Tra queste organizzazioni, di gran lunga la più importante è l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro), che è sorta nel 1919 con lo scopo d’introdurre, in tutti i Paesi, una legislazione protettiva delle classi operaie.
Dal 1919 a oggi l’OIL ha elaborato più di cento convenzioni internazionali occupandosi del lavoro notturno, del lavoro dei fanciulli,di quello delle donne ecc.; ed è certamente l’organizzazione mondiale che più ha inciso sulla vita dei singoli Paesi.Tra gli altri organi settoriali collegati all’oNu, vanno ricordati l’UNESCO (1945), con sede a Parigi, che opera nel campo dell’educazione, della scienza e della cultura, e la FAO, con sede a Roma, che si occupa di alimentazione e di agricoltura.
L’UNESCO ha soprattutto il compito di promuovere la cooperazione internazionale nel campo della cultura e della scienza. Una delle sue attività più utili socialmente consiste nell’elaborazione di programmi educativi per i Paesi in via di sviluppo e nell’assistenza tecnica per attuare quei programmi.
Attività simi1i, anche se naturalmente in un settore diverso —quello appunto dell’alimentazione — sono svolte dalla FAO, che cerca di promuovere e coordinare lo sviluppo agricolo dei Paesi più arretrati.
Altre volte, gli Stati possono stringere unioni di carattere militare, come la NATO (North Atlantic Treaty Organization, detta anche Patto Atlantico), che prevede che i Paesi che ne fanno parte (tra cui l’Italia) accettino di ospitarne i contingenti militari; il Patto di Varsavia è un accordo analogo che riguarda i Paesi dell’Est.
Altre organizzazioni internazionali esistono nei seguenti campi:poste, telecomunicazioni, trasporti marittimi, trasporti aerei, uso dello spazio, uso del letto dei mari, uso dell’Antartico, meteorologia, energia, sanità, politica sociale, commercio, moneta, sviluppo.
Numerosi accordi stipulati tra i Paesi europei hanno dato vita a una serie di organismi, alcuni dei quali di importanza considerevole.
Il più vecchio tra questi organismi è il Consiglio d’Europa, che ha il fine di promuovere l’unità politica europea. Il Consiglio risale al 1949 e va segnalato per l’attività svolta in due settori:
— nel campo del coordinamento di alcune parti della legislazione dei Paesi membri, attraverso l’elaborazione dei trattati internazionali (ad esempio, in materia di estradizione), trattati che, tuttavia, non tutti gli Stati hanno ratificato;
— nel campo della protezione dei diritti dell’uomo.
A tale riguardo, va sottolineato che, nel quadro del Consiglio d’Europa, è stata stipulata(1950) un’importantissima convenzione, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che ha elencato, in un “catalogo”, i diritti fondamentali dell’uomo che vanno protetti. Questa tutela, almeno in alcuni casi, è più avanzata di quella elaborata, per gli stessi cittadini, dagli Stati nazionali.
La Convenzione ha previsto la costituzione e il funzionamento di due organi: la Commissione europea dei diritti dell’uomo; la Corte europea dei diritti dell’uomo: entrambi servono ad attuare la tutela prevista nel “catalogo”.
In base a questa Convenzione ogni persona sottoposta alla potestà d’imperio (jurirdiction) di uno Stato contraente può ricorrere alla Commissione se ritiene di essere “vittima” di una violazione della Convenzione da parte di quello Stato. Ciò, comporta, tra l’altro, che un cittadino italiano, o uno straniero residente in Italia, possa rivolgersi alla Commissione per mettere sotto accusa le autorità italiane per la violazione di un diritto sancito nella Convenzione (ad esempio, per violazione del diritto ad un processo equo e rapido, in relazione alla eccessiva lunghezza dei processi civili o penali in Italia). Ove il ricorso non venga respinto dalla Commissione e sempre che non venga raggiunto tra le parti un “regolamento amichevole” approvato dalla Commissione, è possibile, a certe condizioni, che il caso venga portato (ad esempio, dalla Commissione stessa) davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’organo pronuncia sentenze definitive e può condannare uno Stato all’adozione di tutte le misure necessarie per porre termine alla violazione constatata, nonché al pagamento di un equo compenso alla vittima della violazione. È da notare che di recente è stato adottato un Protocollo aggiuntivo alla Convenzione, in virtù del quale la Commissione e la Corte vengono fusi in un organo giurisdizionale unico (ciò presumibilmente accadrà tra qualche anno, quando tutti gli Stati parti alla Convenzione avranno ratificato quel Protocollo).
E seguita, dopo il Consiglio d’Europa, con il trattato internazionale del 1951, la CECA (Comunità europea per il carbone e per l’acciaio) e, con il trattato internazionale del 1957, la CEE O MEC (Comunità economica europea o Mercato comune europeo). Nello stesso anno, è stato costituito anche l’EURATOM (Comunità europea per l’energia atomica).
Con questi trattati, s’è data vita all’Europa dei Sei (Francia, Italia, Germania,..Belgio, Olanda e Lussemburgo). Ai Sei si sono aggiunti, nel 1973, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e poi Grecia, Spagna e Portogallo.
Ai dodici Paesi della Comunità hanno deciso di aggiungersi, nel 1994, Norvegia, Svezia, Finlandia e Austria.
Questi accordi hanno avuto come fine quello di creare un mercato libero tra i Paesi aderenti attuando, gradualmente, la libera circolazione delle persone e dei beni, l’abolizione delle dogane, la creazione di una politica coordinata nell’agricoltura e, in generale, un avvicinamento delle legislazioni dei vari Stati in materia economica. Si tratta di obiettivi che, per la loro attuazione, hanno richiesto l’emanazione, da parte della comunità, di atti che debbono essere operativi all’interno dei Paesi membri. Ciò ha comportato una parziale limitazione della loro sovranità che si è manifestata, appunto, con l’efficacia immediata degli atti comunitari all’interno degli ordinamenti statali.
Nel 1965 se avviato un processo di fusione degli organismi esecutivi, in modo tale che queste comunità oggi funzionano con un unico apparato legislativo, giudiziario ed esecutivo (quello che sarà esaminato nei prossimi paragrafi).
Una tappa importante di questo processo di unificazione dell’apparato esecutivo è stata, nel 1979, la prima elezione diretta del Parlamento europeo. Infatti, mentre in passato i suoi componenti venivano eletti dai Parlamenti dei vari Stati, a partire da questa data le elezioni sono fatte direttamente dal popolo di tutti gli Stati.
Nel 1986 è stato adottato l”’Atto unico europeo”, entrato in vigore nel 1987. Esso è un accordo che modifica i trattati istitutivi delle Comunità europee, rafforzando il Parlamento europeo, estendendo l’integrazione economica e promuovendo la cooperazione politica tra i governi degli Stati membri.
Nel 1992 è stato firmato a Maastricht (Olanda) il Trattato sull’Unione europea. Esso non è soltanto una revisione dei trattati relativi
alle tre Comunità europee; prevede anche una loro radicale trasformazione.
L’Unione europea
Il Trattato di Maastricht configura l’Unione in modo molto complesso. Esso sovrappone alle Comunità europee un ‘Unione politica. Questa si occupa di politica estera, sicurezza comune, giustizia, affari esterni. Le Comunità, invece, si occupano di economia.
Le funzioni affidate all’Unione riguardano:
— la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi, delle imprese;
— la protezione dell’ambiente;
— la bilancia dei pagamenti;
— la politica commerciale;
— la politica congiunturale;
— la tutela dell’ambiente di lavoro e della sicurezza e della salute
dei lavoratori;
— la libera concorrenza;
— — la politica agricola;
— la politica dei trasporti;
— la politica sociale;
— la ricerca e lo sviluppo tecnologico;
— la politica di bilancio;
— l’istruzione, la formazione professionale e i problemi della gioventù;
— la cultura; sanità pubblica; protezione dei consumatori; reti transeuropee; politica industriale;
coesione europea (cioè gli interventi per le aree sottosviluppate
la politica monetaria; la politica estera; la sicurezza comune; la giustizia; gli affari esterni.
Ma questi settori di attività non sono lasciati dagli Stati europei aderenti interamente all’Unione europea. In alcuni, questa può solo stabilire direttive, in altri coordinare, in altri ancora può, invece, stabilire regole vincolanti e agire direttamente.
Gli atti più importanti dell’Unione sono i regolamenti, che hanno le caratteristiche di una legge e trovano diretta applicazione negli Stati membri, e le direttive, che sono dirette agli Stati e che richiedono che questi le recepiscano nell’ordinamento interno.
La cittadinanza dell’Unione spetta ad ogni persona che sia cittadino di uno Stato membro. A tutti i cittadini dell’Unione sono riconosciuti:
— il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membr4i.. (in ogni Stato è rilasciato ai cittadini un passaporto “comunitario”);
— il diritto di voto e quello di essere eletti alle elezioni comunali e al Parlamento europeo nello Stato di residenza (che può essere diverso da quello di cui si è cittadini);
— il diritto di petizione (di rivolgere osservazioni e richieste) al Parlamento europeo;
— il diritto di rivolgersi ad un “mediatore” europeo (questo è un organo non giurisdizionale, che opera come difensore civico, non come giudice, per suggerire le formule di soluzione di conflitti).
L’organizzazione dell’Unione è articolata nel modo seguente. Parlamento europeo, eletto direttamente dai popoli dei dodici paesi esso, però, ha solo poteri di controllo e deve dare il suo assenso alcune decisioni (ad esempio, il bilancio); ha limitati poteri legislativi
2. Consiglio, composto di rappresentanti dei governi nazionali, con compiti legislativi (adotta i regolamenti e le direttive).
~. Commissione, diretta da i ~‘ membri scelti, di comune accordo, dagli Stati nazionali, ma che non rispondono agli Stati. I membri della Commissione sono i “guardiani” dell’Unione, nel senso che debbono assicurare che essa raggiunga i suoi fini. La Commissione ha compiti di proposta e di attuazione degli indirizzi del Consiglio.
~. Corte di giustizia (e Corte di primo grado), che verifica che le direttive e i regolamenti vengano rispettati dagli Stati.
~. A questi organismi “costituzionali” si aggiungono altri apparati ad hoc, come, ad esempio, l’Agenzia per l’ambiente e i tre fondi strutturali (per l’agricoltura, per lo sviluppo regionale e per il settore sociale).
Il personale dell’Unione è numeroso: ha superato le 20.000 unità.
La finanza dell’Unione, costituita, in una prima fase, da risorse conferite dagli Stati, è oggi costituita prevalentemente da entrate proprie, derivanti principalmente da imposizione fiscale sugli scambi commerciali tra l’Unione e Paesi terzi.
L’attuazione delle decisioni dell’Unione avviene attraverso strumenti diretti dell’Unione, oppure attraverso le amministrazioni nazionali. Ad esempio, ogni anno l’Unione determina gli obiettivi della “commercializzazione” nel settore agricolo, stabilendo le quantità e i prezzi dei prodotti agricoli. I terreni, oltre un certo limite, sono esclusi dalla produzione a spese dell’Unione. Ma quest’ultima non potrebbe mettersi in contatto con agricoltori che sono sparsi in tutta l’Europa e, poi, non saprebbe dove conservare grandi quantità di cereali o di prodotti zootecnici. Ricorre, allora, ad organismi nazionali detti “di intervento”, che agiscono per conto dell’Unione.L’adeguamento dell’ordinamento italiano a quello comunitario avviene principalmente mediante il recepimento delle direttive comunitarie. Per sveltire il processo di recepimento che passa, in Italia, attraverso il Parlamento, nel 1989 è stato previsto che, ogni anno, il Parlamento approvi un’ampia legge, detta “legge comunitaria”, che recepisce tutte le direttive emanate, nel frattempo, dalla Comunità. I giudici europei e quelli italiani hanno affermato il principio che il diritto comunitario prevale su quello nazionale
S’è esaminata, finora, la tendenza all’istituzione di altri poteri pubblici, al di fuori e al di sopra dello Stato. Questa tendenza si accompagna con una tendenza opposta all’istituzione di poteri pubblici dentro e — per così dire — sotto lo Stato, le Regioni.
La tendenza regionalistica, per limitarci all’Europa, si afferma in
Germania (fin dal secondo dopoguerra), in Italia (1970), in Gran
Bretagna (relativamente a Scozia e Galles nel 1978), in Belgio (1970-
71), in Francia (1982) e in Spagna (1978-79).
Bisogna, però, distinguere regionalismi maturi da regionalismi in sviluppo. Le differenze tra Lànder tedeschi e Regioni italiane si notano subito, se si esaminano i poteri centrali e regionali dei due Stati. Nella repubblica federale tedesca, solo poste, ferrovie, dogane, esteri e difesa sono apparati estesi, a rete, su tutto il territorio. Gli altri apparati federali operano solo al centro, perché l’esecuzione, in periferia, è rimessa ai Lànder (le Regioni) e, sotto la loro direzione, ai Comuni. In Italia, invece, più della metà dei ministeri continua ad avere propri apparati decentrati, regionali, provinciali o di altra dimensione. E qualche ministero (Finanze, ad esempio) ha, in periferia, più di un apparato o tanti apparati quante sono le direzioni generali del ministero.
Oltre a questo indizio, relativo alla giustapposizione tra uffici statali e uffici regionali, ve n e un altro, relativo alle dimensioni dello Stato e delle Regioni. In Germania, il Bund (lo Stato centrale) occupa il 34% dei dipendenti pubblici, i Lànder il 43%. In Italia, lo Stato circa il 40% e le Regioni meno del 5%. In Germania, i Lànder gestiscono il 45% della spesa pubblica, mentre le Regioni, in Italia, dispongono solo del 15% circa della spesa pubblica complessiva.
Le conseguenze del diverso peso delle Regioni rispetto allo Stato si fa sentire. Mentre in Germania i poteri legislativi sono concentrati a livello federale e quelli amministrativi nei Lànder, in Italia legislazione e amministrazione si distribuiscono in modo disordinato. In Germania, il ricambio tra dirigenza regionale e dirigenza federale è frequente mentre il passaggio del personale politico dall’uno all’altro livello è, in Italia, un’eccezione.
Tendenze dello Stato contemporaneo
Ambedue le tendenze esaminate — internazionalizzazione e regionalizzazione — costituiscono fattori di crisi dello Stato. Va avvertito, però, che questo, considerato come un centro cui convergono i raggi del potere amministrativo, è solo una delle forme del potere pubblico. E neanche sviluppatasi dovunque a pieno. Basti ricordare che Io Stato, in Gran Bretagna ad esempio, s’è sviluppato tardi e in maniera incompleta: gli manca, in quel Paese, il livello intermedio tra i ministeri e le funzioni locali; alcuni dei maggiori Departments o ministeri, come quelli della Sanità, dell’Industria, dell’Ambiente, dei Trasporti, dell’Occupazione, hanno sì uffici decentrati, ma solo in alcune parti del Paese e solo con funzioni di raccordo, come ambasciatori, senza poteri propri, sia pur subordinati al potere centrale.
Lo Stato, dunque, che al suo apogeo assorbiva ogni altra forma di potere pubblico, è oggi soggetto a un lento processo di cambiamento. Per un verso, esso è debole, perché non riesce a dominare tutti i fenomeni economici e sociali, a causa dell’insufficienza delle sue dimensioni. Per altro verso, è sovraccarico, perché deve soddisfare crescenti domande politiche e sociali, alle quali può far fronte solo divenendo il più grande intermediario finanziario e dando lavoro al 20% della forza lavorativa. Di qui l’affermarsi di un fenomeno diffuso, quello della creazione di altri poteri pubblici fuori e dentro lo Stato, e una fuga di funzioni pubbliche verso l’alto e verso il basso, rappresentata dalla internazionalizzazione e dalla regionalizzazione di molte funzioni pubbliche.
L’Italia ha oggi 57 milioni di abitanti; di questi, 42 milioni hanno diritto di votare.
I partiti politici maggiori, quelli rappresentati in Parlamento, sono una decina con poco più di ~ milioni di iscritti.
I sindacati sono molti di più e hanno 9 milioni di iscritti. Ma quelli di maggiore importanza sono tre, con quasi ~“ milioni di iscritti.
La Repubblica è fondata su una Costituzione, entrata in vigore nel .1948, nella quale sono presenti ideali liberali, democratici e socialisti.
Il sistema economico (agricoltura, industria, commercio e servizio) è in parte privato, in parte pubblico. In particolare, le imprese pubbliche (cioè le imprese controllate dallo Stato) rappresentano circa un quarto dell’economia.
A tutti è assicurata l’istruzione (fino alla terza media), l’assistenza sanitaria e la previdenza (ad esempio, la pensione di vecchiaia).
Se si confrontano questi dati con quelli di un secolo fa, si nota una grande differenza.
L’Italia aveva allora solo 21 milioni di abitanti; ma i cittadini con il diritto di votare erano meno di mezzo milione.
Non esistevano né partiti né sindacati, ed era ancora in vigore lo Statuto concesso da Carlo Alberto nel 1848 (quindi, prima dell’unificazione politica dell’Italia).
Il sistema economico, prevalentemente agricolo, era quasi interamente privato, e non esistevano quasi servizi sociali. Se si confrontano le condizioni politiche e sociali di oggi con quelle di un secolo fa, si nota dunque un notevolissimo cambiamento: la collettività si organizza in partiti e sindacati, per far valere con più forza le proprie aspirazioni; tutti possono scegliere, periodicamente, i propri rappresentanti in Parlamento; lo Stato garantisce l’istruzione e altri servizi sociali a tutti.
Come s’è realizzato questo cambiamento? Quali sono state le tappe principali di questa evoluzione?
Questo cambiamento ha le sue radici nell’allargamento della partecipazione dei cittadini allo Stato attraverso il voto, la presenza nei partiti e nei sindacati, la discussione politica pubblica ecc. Più i cittadini sono divenuti attivi e si sono organizzati in associazioni, partiti e sindacati, meglio essi hanno potuto esprimere richieste essenziali, come diritto di voto, diritto di istruzione, assistenza sociale, interventi statali nell’economia. Col crescere, dunque, della partecipazione, da una parte, lo Stato diveniva più democratico; dall’altra, si allargavano le sue funzioni.
Tutto questo, però, non è avvenuto seguendo uno sviluppo lineare e progressivo: vi sono stati periodi in cui il cambiamento è stato più rapido e periodi in cui esso è stato più lento. E vi è stato anche un periodo che, per molti aspetti, ha rappresentato un passo indietro. Per questo motivo, bisogna distinguere il secolo che va dal 1861 (proclamazione dell’Unità d’Italia) ai nostri giorni in quattro fasi.
1. La fase oligarchica (dal 1861 alla fine del secolo scorso). Come dice la parola “oligarchia” (che significa “governo di pochi”), questa fase è caratterizzata da cauti e limitati aumenti del numero delle persone che possono votare; dall’assenza di partiti e sindacati; dal predominio del liberismo economico, favorevole alla libertà delle industrie private.
2. La fase liberale-democratica (dagli inizi di questo secolo fino al 1922): un periodo di forte sviluppo, nel quale si assicurano le libertà fondamentali, si affacciano e rafforzano partiti e sindacati, si allarga il numero degli elettori, si mettono le basi dell’intervento economico e sociale dello Stato.
3. Il fascismo (1922-43): cessano le principali libertà e non si Svolgono più elezioni democratiche; vengono vietati partiti e sindacati, con l’eccezione di quelli fascisti; si afferma lo Stato autoritario.
4. Il periodo repubblicano: ha inizio con la caduta del fascismo (1943)e la proclamazione della Repubblica (1946). Con il periodo di maggior sviluppo democratico cessa ogni discriminazione nella concessione del diritto di voto; si ricostituiscono e sviluppano partiti e sindacati; si allargano i servizi sociali.
Dopo aver illustrato le fasi principali del cambiamento avvenuto
dal i86i a oggi, esaminiamone più attentamente le componenti. Esse
sono quattro:
- il corpo elettorale;
- l’organizzazione politica e sindacale;
- la Costituzione;
- l’intervento economico e sociale dello Stato.
Con l’espressione corpo elettorale - come vedremo meglio più avanti
- si indicano i cittadini aventi diritto al voto. Col voto, si scelgono le persone per il Parlamento.
Prima fase All’inizio, dopo l’unificazione dell’Italia, il corpo elettorale era molto ristretto: non raggiungeva neppure il 20/o degli abitanti. Questo vuol dire che la maggior parte degli italiani non poteva votare.. Le persone escluse dal voto erano le donne, le persone senza istruzione e i poveri.
Seconda fase Il corpo elettorale fu progressivamente allargato, fino al 1919, quando fu concesso di votare a tutti i cittadini: si raggiunse così il numero di 10 milioni di elettori. Da questi, però, erano sèmpre escluse le donne.
Terza fase Durante gli anni del fascismo si svolsero soltanto due consultazioni elettorali. Ma queste non furono democratiche, perché non vi era la possibilità di scegliere tra più partiti: vi era un solo partito per cui votare, quello fascista.
Quarta fase Solo con le elezioni del 1946, il corpo elettorale si estende a tutti, perché in quell’anno, per la prima volta, viene data la possibilità di votare alle donne.
Le donne sono state considerate, fino al 1946, parzialmente incapaci. Oltre a non poter votare, non potevano fare i giudici né potevano accedere alle cariche più importanti (prefetto, ambasciatore ecc.). Nel I945 una legge permise loro di votare, ma solo per eleggere i rappresentanti comunali, a livello locale. Questa legge, del resto, non fu mai applicata perché, subito dopo, il fascismo tolse carattere
elettivo alle cariche locali: il sindaco si chiamò podestà e non venne più eletto dal popolo, ma nominato dal governo. Oggi, non solo le donne hanno diritti uguali a quelli degli uomini, ma - poiché sono in numero superiore agli uomini - costituiscono la quota maggiore dell’elettorato.
Perché un ordinamento sia democratico, non basta che tutti votino. Bisogna anche avere una possibilità di scelta. E questa è assicurata dall’esistenza di una pluralità di partiti.
Prima fase Nella storia italiana dopo l’Unità, fino alla fine dello scorso secolo, non vi sono veri e propri partiti. Esistono, piuttosto, movimenti, non organizzati, costituiti da una personalità in vista e da suoi seguaci. I principali movimenti sono: quello liberale (che ha la maggioranza in Parlamento); quello radicale e quello repubblicano, che sono, invece, di opposizione. I movimenti formano coalizioni dette - genericamente - Destra e Sinistra. Ma neppure l’opposizione è particolarmente rigida; anzi, i rapporti tra maggioranza e opposizione sono fluidi. Questo si spiega con la ristrettezza del corpo elettorale che consentiva solo a una classe, la borghesia, di essere rappresentata in Parlamento. Un esempio: Francesco De Sanctis, un famoso studioso di letteratura italiana, ministro della Pubblica Istruzione, fu eletto, nel 1870, con 359 voti e, nel 1876, con 612 voti. E evidente che non c’era bisogno di un partito organizzato per avere quei pochi voti.
Seconda fase Nascono e si sviluppano i partiti. Il primo è quello socialista, fondato nel 1892. Esso è il primo vero partito organizzato, con un programma e uno statuto, le tessere per gli iscritti, un articolazione interna in sezioni e federazioni, assemblee e congressi periodici, organi elettivi che possono prendere decisioni per tutti gli iscritti. Quello socialista è anche il primo partito veramente di opposizione, perché rappresenta la classe lavoratrice, che fino allora non era presente nel Parlamento.
Il secondo partito è quello popolare formato dai cattolici nel 1919, di ispirazione cristiana.
Il Partito socialista italiano e il Partito popolare italiano sono anche i primi partiti di massa e raggiungono, nelle elezioni del i9i~, un consenso larghissimo. Per la prima volta, essi battono i movimenti tradizionali, e specialmente quello liberale.
Nel 1921 nasce, a seguito di una scissione del partito socialista, il partito comunista. Anch’esso s’ispira al marxismo, ma in senso rivoluzionario: una spinta alla sua costituzione viene proprio dalla rivoluzione russa del 1917, durante la quale, per la prima volta nel mondo, le classi lavoratrici avevano conquistato il potere, rovesciando gli zar.
Terza fase Nel periodo fascista, la libertà di iscriversi a partiti e istituire partiti viene soppressa. L’Italia diventa uno Stato a partito unico: questo è il Partito nazionale fascista, riconosciuto addirittura come organo dello Stato: da associazione di cittadini, costituita democraticamente, si trasforma in organismo statale, creato e imposto dall’alto. Gli altri partiti vengono sciolti d’autorità.
Quarta fase Con le elezioni del 1946, riappaiono i tre principali partiti della fase precedente: quello socialista, quello democratico-cnstiano (che rappresenta la continuazione di quello popolare) e quello comunista. Oltre a essi, ve ne sono altri, ma tutti di molto minore importanza. Si consolida il “pluripartitismo” (più partiti concorrenti tra di loro), già realizzatosi prima del fascismo.
Dallo Statuto albertino (1848) alla Costituzione repubblicana (1948)
La prima preoccupazione dei partiti in Parlamento è quella di fare un accordo o patto che stabilisca le regole fondamentali di funzionamento dello Stato e i diritti dei cittadini. Questo accordo viene, di solito, definito Costituzione.
Ma, prima del 1948, l’Italia non ha avuto una Costituzione di questo tipo. Dal i86i al 1948 essa è stata retta dallo Statuto che ‘Carlo Alberto, re di Sardegna, aveva concesso nel 1848 (dal nome del re che lo concesse, questo Statuto si chiama di solito Statuto albertino). Lo Stato unitario, infatti, recepì l’ordinamento del Regno di Sardegna (Piemonte e Sardegna) e lo Statuto che ne era il fondamento. Questo Statuto non era il fruttò della decisione di un’assemblea rappresentativa del popolo (Parlamento). Esso era stato elaborato dai consiglieri del re e da lui “concesso” agli “amatissimi sudditi”. Lo Statuto, dunque, calava dall’alto.
Lo Statuto era anche un testo costituzionale breve e flessibile, e sopravvisse per un secolo proprio per questo. Esso consentì, ad esempio, nei periodo fascista, la trasformazione del presidente del Consiglio dei ministri in “Capo del governo e Duce del fascismo”: fu cosi che Mussolini poté esercitare poteri dittatoriali.
Lo Statuto albertino era norma di legge ordinaria e non aveva particolare “forza” costituzionale (come, più tardi, la Costituzione del 1948). Ciò consentì al Parlamento di adottare leggi che, di fatto, modificavano il regime. Infatti, lo Statuto rimase in vita nel periodo oligarchico (i86i-fine secolo), in quello liberale (1900-22) e in quello autoritario (ventennio fascista).
Caduto il fascismo, nel 1946 e nel 1947 fu elaborata la nuova Costituzione, che entrò in vigore il Io gennaio i 948.
La Costituzione del 1948, innanzitutto, è repubblicana. Infatti, con il referendum (consultazione popolare diretta) che l’aveva preceduta, il popolo italiano aveva scelto la repubblica, in luogo della monarchia dei Savoia, che aveva regnato sin dall’Unità d’Italia.
In secondo luogo, la Costituzione del 1948 ~ democratica. Essa prevede che alle elezioni del Parlamento partecipino tutti i cittadini, e di essi stabilisce, in una lunga serie di articoli, i diritti e le libertà fondamentali.
In terzo luogo, la Costituzione prevede la pianificazione economica e altri strumenti per correggere, nell’interesse della società, i difetti dell’iniziativa imprenditoriale privata. Ad esempio, prevede che le imprese private, quando sono in posizione di monopolio (perché sono le uniche produttrici di certi beni sul mercato e abusano di questa posizione dominante, facendo, ad esempio, prezzi troppo alti), possono essere espropriate e gestite dallo Stato.
La Costituzione italiana è, infine, rigida, nel senso che può essere modificata con una procedura speciale; le leggi di revisione della Costituzione debbono essere adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e debbono essere approvate a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione (art. 138 Cost.).
Tuttavia, la forma repubblicana è ulteriormente protetta, perché «non può essere oggetto di revisione costituzionale» (art. 139 Cost.).
La Costituzione repubblicana fu elaborata in i ~ mesi dall’Assemblea costituente, eletta il 2 giugno 1946. Ma in essa si riflettono le aspirazioni e le lotte antifasciste e democratiche maturate durante la dittatura fascista. Nella clandestinità, i principali partiti, mentre lottavano per la caduta del fascismo, avevano fatto programmi per il periodo successivo. Il 25 luglio 1943 cadde il fascismo e si svolse la fase più aspra della Resistenza armata, con l’Italia divisa in due, il Nord occupato dai tedeschi (alleati dei fascisti), il Sud dalle forze americane, inglesi e di altri Paesi (in lotta contro il fascismo).
Gli antifascisti erano organizzati nel Comitato di liberazione nazionale - CLN. Il 25 aprile 1945, il Nord fu liberato dai tedeschi. Un anno dopo, il 2 giugno 1946, l’Italia poteva nuovamente votare democraticamente. Nello stesso giorno, fu eletta l’Assemblea costituente e, con una consultazione popolare diretta (detta “referendum”), fu deciso che l’Italia sarebbe stata una Repubblica.
La Costituzione del 1948 è un testo composito, in cui si trovano norme ispirate agli ideali liberali, norme ispirate all’orientamento democratico e norme che derivano dalle ideologie cattolica e socialista. Essa fu, infatti, un compromesso tra i principali partiti e movimenti presenti nell’Assemblea che la discusse e deliberò: i partiti liberali e democratici, quello democristiano, quello socialista e quello comunista.
L’attuazione della Costituzione è stata lenta, perché numerose forze politiche si sono opposte all’effettiva realizzazione dei principi e delle istituzioni da essa previsti. Ad esempio, la Corte costituzionale e le Regioni, istituzioni nuove, previste per la prima volta dalla Costituzione del 1948, furono effettivamente realizzate, rispettivamente, nel 1956 e nel 1970 (e cioè 8 e 22 anni dopo la Costituzione).
7.6
Sviluppo dell’attività economica e sociale dello Stato
Abbiamo visto finora che, col passare del tempo, il popolo tende a organizzarsi per far valere meglio i propri interessi: i cittadini, associati in partiti, possono avere successo mentre, da soli, non riuscirebbero a realizzare i propri scopi. Abbiamo visto anche che questo vale ~.specialmente per le classi lavoratrici e i meno abbienti, che erano esclusi dal potere nel secolo scorso e hanno dovuto organizzarsi per poter conquistare il diritto di voto e per essere, quindi, rappresentati in Parlamento. Questi gruppi hanno chiesto di entrare in Parlamento per influenzare l’attività statale, a favore delle classi lavoratrici. L’hanno fatto, quindi, per introdurre nuove leggi che limitassero il potere economico privato (ad esempio, il controllo pubblico sui prezzi dei beni e dei servizi essenziali, come l’elettricità, i trasporti, gli alimentari) o stabilissero nuovi diritti per i lavoratori (ad esempio, il diritto di sciopero, quello di libertà sindacale ecc.). Questa è la prima delle spinte che conducono a un allargamento dell’attività economica e sociale dello Stato.
Ma vi è anche una seconda spinta in questa direzione. Essa proviene dalle stesse imprese private ed è particolarmente accentuata nei momenti di crisi economica. E’ la ricerca di aiuto da parte dello Stato: ad esempio, la richiesta di finanziamenti pubblici a condizioni di favore.
L’attività economica e sociale dello Stato, dunque, cresce a causa di due richieste contrastanti: quella, delle classi lavoratrici, di protezione; quella, delle imprese private, di aiuto.Ma vediamo ora come si alternano e intrecciano queste due richieste nelle quattro fasi dell’evoluzione politica e sociale.
Prima fase Predominano gli interessi della borghesia. Questa ottiene, per le imprese private, libertà di azione (cosiddetto liberismo economico). Ma, a causa della debolezza del sistema imprenditoriale, è costretta anche a chiedere l’appoggio dello Stato, che si realizza mediante tariffe doganali di favore; cioè, introducendo imposte elevate sui prodotti delle imprese estere, che non possono, quindi, fare concorrenza a quelli delle imprese italiane.
Quanto all’attività sociale dello Stato, questo si limita alla beneficenza. Apposite istituzioni erogano aiuti ai poveri, in denaro o in natura.
Seconda fase Con la presenza dei rappresentanti dei lavoratori in Parlamento, le due tendenze che abbiamo visto, nel campo economico e sociale, vengono rovesciate.
In primo luogo, si afferma il principio che le imprese che maggiormente interessano la collettività devono essere tolte di mano ai privati e gestite dallo Stato, dai Comuni o dai lavoratori. Agli inizi del secolo, vengono costituite molte aziende municipalizzate (imprese gestite dai Comuni) per i trasporti locali, il gas, l’elettricità; nel 1905, le ferrovie vengono assunte dallo Stato, che le gestisce tramite l”’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato” (precedentemente erano gestite da privati, ma in concessione; per cui una volta riscattate le concessioni, nel 1905, lo Stato poté assumerne la gestione in forma quasi monopolistica); nel 1912, viene istituito l’Istituto nazionale delle assicurazioni (INA), per controllare questo settore.
Se al liberismo economico si sostituisce l’interventismo economico, alla beneficenza si sostituisce la protezione sociale. Non è giusto - si dice - che chi non ha mezzi sia esposto a rischi maggiori di chi è benestante. Nel primo ventennio del secolo, dunque, vengono emanate le prime leggi sull’igiene e la sicurezza del lavoro, a protezione del lavoro delle donne e dei bambini, e si creano gli istituti di previdenza per assicurare l’assistenza in caso di malattie, infortuni, vecchiaia.
Terza fase è quella del fascismo. L’azione economica e sociale dello Stato si amplia. Vengono emanate numerose leggi relative al territorio (sulle miniere, sulle acque, sulla bonifica, sull’urbanistica, per la tutela del paesaggio) e crescono le imprese pubbliche: in particolare, si sviluppano le cosiddette partecipazioni statali (partecipazioni azionarie dello Stato in imprese formalmente private che, in tal modo, vengono controllate dallo Stato). Ma si tratta di interventi destinati spesso più ad appoggiare le imprese private colpite dalla grande crisi economica del 1929-3 3, che a proteggere interessi sociali. Ad esempio, con la creazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), nel 1933, si evitò il fallimento di molte imprese e banche.
Quarta fase Lo Stato assume un ruolo dominante nei settori economico e sociale. In quello economico, si estendono le imprese pubbliche, con l’istituzione dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) e con la nazionalizzazione dell’elettricità (espropriazione delle industrie private produttrici e distributrici di energia elettrica e passaggio della gestione a un ente pubblico, l’Ente nazionale per l’energia elettrica, ENEL); viene creata la Cassa per il Mezzogiorno, per fare interventi aggiuntivi nelle aree meridionali sottosviluppate, prende impulso la programmazione economica statale (indirizzo e controllo pubblico delle imprese pubbliche e private).
Nel settore sociale, l’intervento è ancora più ampio. Viene assicurata un’istruzione a tutti. Alla stragrande maggioranza dei cittadini è garantita l’assistenza sanitaria e la pensione.
Il popolo
La sovranità popolare
Al centro dei poteri pubblici, negli ordinamenti moderni, sta il popolo. Il popolo è costituito dalla collettività nazionale, nella sua interezza, compresi i minori di età. La posizione centrale del popolo può riscontrarsi in due aspetti: da una parte, esso è la fonte di tutti i poteri; dall’altra, è ad esso che sono diretti i servizi pubblici.
Come fonte di ogni potere, il popolo ha preso il posto di altre autorità, come quella definita genericamente Nazione.
In effetti, in passato, i re venivano incoronati “in nome di Dio e della Nazione”. Quest’ultima, però, non si identificava con l’intero popolo, poiché partecipavano al voto solo pochi cittadini, e solo questi potevano accedere ai pubblici uffici. Per cui il divario tra governanti e governati, tra amministratori e amministrati era molto grande.
La Costituzione repubblicana ha riconosciuto appieno, in Italia, questa posizione del popolo. Essa, all’art. i, dispone che l’Italia è una «Repubblica democratica», che è «fondata sul lavoro» e che- la «sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei li-miti della Costituzione». La derivazione popolare dei poteri è, dunque, affermata due volte, dove la Repubblica è definita democratica e dove si attribuisce al popolo la sovranità.
E’ interessante notare che l’Assemblea costituente, nel corso della discussione sul progetto di Costituzione, considerò la proposta di dichiarare che l’Italia è una Repubblica democratica «di lavoratori». La proposta, avanzata dal segretario del Partito comunista, fu scartata.
Il popolo, in secondo luogo, è il destinatario delle attività dei poteri pubblici. In altre parole, si adottano e promulgano leggi, si emanano sentenze, si erogano servizi pubblici per curare interessi che possono essere generali (di tutta la collettività) o particolari (degli abitanti di una certa zona, ad esempio), ma sono sempre collettivi o popolari.
Anche questo principio è fissato nella Costituzione, all’art. 98 dove dispone che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». In questa norma, si può notare un contenuto negativo e uno positivo. Essa, infatti, esclude che gli impiegati operino per finalità che siano diverse da quelle del popolo (ad esempio, per gli interessi di un partito, di un sindacato, di gruppi di interesse ecc.). E
obbliga a operare al servizio della “Nazione” (si noti che, in questo caso, la Costituzione adopera il termine tradizionale, per lo più abbandonato, anche in polemica col nazionalismo di cui era imbevuto il fascismo).
8.2
Il diritto di associarsi in partiti
Esaminiamo qui la posizione del popolo come fonte dei poteri pubblici. Tale posizione è riconosciuta dalla Costituzione in tre modi.
In primo luogo, assicurando ai cittadini la possibilità di influire sulla politica nazionale. In secondo luogo, consentendo a essi sia di prendere decisioni collettive, sia di scegliere propri rappresentanti ai quali delegare tale compito. Infine, assicurando a essi l’accesso ai pubblici uffici.
L’art. 49 della Costituzione dispone: «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Di questo articolo non è importante tanto la garanzia della libertà di associazione, perché la Costituzione stessa, prima ancora, all’art. 18, relativo ai “rapporti civili”, assicura la libertà di associazione. I partiti sono associazioni e, quindi, la loro tutela è già assicurata.
Sono rilevanti, invece, tre altri elementi: il concorso dei partiti, il metodo democratico, la determinazione della politica nazionale.
Il concorso dei partiti presuppone il pluralismo dei partiti, senza del quale non vi può essere competizione. L’esperienza fascista, durante la quale vi era un partito unico, chiamato Partito nazionale fascista, era ancora vicina quando fu redatta la Costituzione. Per cui si volle affermare il principio opposto, quello del pluralismo.
Durante il periodo fascista, non solo quello fascista fu l’unico partito riconosciuto, ma esso fu anche configurato come ente pubblico e fu introdotto l’obbligo per particolari categorie di cittadini, come i dipendenti statali, di iscriversi al partito. In tal modo, non solo non si aveva la scelta tra partiti, ma si era anche obbligati a iscriversi all’unico partito di cui fosse consentita l’esistenza.
Dal principio che i partiti debbano concorrere discende anche il principio dell’uguaglianza di trattamento dei diversi partiti, senza del quale non vi sarebbe concorso in senso proprio.
In secondo luogo, la Costituzione non si interessa del tipo di organizzazione interna dei partiti (come per i sindacati, che debbono avere un «ordinamento interno a base democratica»: art. 39), ma del modo in cui competono, disponendo che il concorso debba rispettare il metodo democratico. Ciò vuol dire che si deve rispettare la regola per cui chi ottiene maggiori consensi popolari guadagna maggior potere.
In terzo luogo, i partiti concorrono alla determinazione della politica nazionale. Si trova qui il fondamento del potere dei partiti, ai quali viene rimesso il compito di determinare l’indirizzo politico. Secondo la Costituzione, i partiti sono il tramite tra il popolo sovrano e l’organizzazione pubblica. Spetta, quindi, a quelli che ottengano maggior numero di voti di determinare la politica nazionale.
8.3
Il diritto del popolo di prendere decisioni collettive
e di scegliere i propri rappresentanti
Oltre che ad associarsi in partiti per determinare, in competizione, la politica nazionale, al popolo è richiesto di partecipare al potere di decisione in due modi: da una parte, prendendo decisioni dirette, dall’altra delegando il potere di decisione a persone da esso stesso scelte.
L’esercizio diretto del potere di decisione non può che essere limitato, considerando le dimensioni delle collettività nazionali moderne, dove le decisioni popolari non possono essere prese sull’uscio di casa, secondo il modello dell’autogoverno. Tuttavia, la Costituzione prevede tre ipotesi nelle quali è il popolo direttamente che prende decisioni, mediante procedimenti detti “referendum”: si tratta del referendum abrogativo, di quello costituzionale e di quello consultivo. Esaminiamoli rapidamente, salvo ritornarci dopo aver parlato della Corte costituzionale.
Il referendum abrogativo è regolato dall’art. 75 della Costituzione. Può essere chiesto da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli
regionali. Può riguardare leggi, decreti legge e decreti delegati. Partecipano al referendum tutti i cittadini che possono votare per la Camera dei deputati. Se il referendum è approvato, la legge viene abrogata.
La Costituzione indica la consultazione popolare diretta, quindi, non per approvare leggi, ma, al contrario, per abrogarle. L’approvazione diretta dileggi — che configura la cosiddetta “democrazia diretta , perché il cittadino partecipa direttamente all’esercizio del potere pubblico — è stata esclusa per i motivi indicati prima, relativi alla difficoltà di prendere decisioni che sono sempre complesse e spesso richiedono l’urgenza, promuovendo la manifestazione della volontà popolare: il tempo, i costi, le difficoltà di ponderare le diverse alternative richiedono che decida un’assemblea più ristretta, titolare di poteri delegati.
Vi è, poi, il pericolo che nella consultazione popolare diretta prevalgano interessi “populistici”, più che popolari, come quello, tanto diffuso, di pagare minori imposte. Per questo motivo, anche il referendum a scopo meramente abrogativo non è ammesso per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Il referendum costituzionale è previsto dall’art. 138 della Costituzione. Esso può essere richiesto solo entro tre mesi dalla pubblicazione di una legge di revisione della Costituzione o di una legge costituzionale. La legge viene sottoposta a referendum se ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Se la maggioranza degli aventi diritto al voto non approva, la legge non è promulgata. Il referendum non può aver luogo se la legge, in seconda votazione, è stata approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti.
Il referendum consultivo è previsto dagli artt. 132 e 133 della Costituzione per la fusione di Regioni, l’istituzione di nuove Regioni, il distacco di Province e Comuni da una Regione e la loro aggregazione a un’altra, l’istituzione di nuovi Comuni e la modificazione della circoscrizione o della denominazione di Comuni.
Con l’esclusione di questi casi, il potere di decisione è attribuito ad assemblee elettive, che operano in quanto rappresentano il popolo. Questa rappresentanza è assicurata dal voto, che spetta a tutti i cittadini che hanno raggiunto la maggiore età.
L’art. 48 della Costituzione dispone che «il voto è personale ed uguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico».
Una volta, il mancato esercizio del diritto di voto era sanzionato con l’iscrizione nei certificati di stato civile della frase “non ha votato”. Oggi ogni sanzione è stata abrogata, anche per effetto dell’espansione del cosiddetto “partito dei non votanti”. Questo ha messo in evidenza che il non-voto non va considerato come semplice assenteismo ma come una scelta politica.
Attraverso il voto, viene assicurato il legame tra popolo e suoi rappresentanti: il primo può scegliere i secondi, i quali sono rimessi periodicamente alla scelta popolare.
8.4
Il diritto di accesso ai pubblici uffici
La posizione del popolo come fonte dei poteri pubblici è completata dall’art. 51, secondo il quale «tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
Questo articolo della Costituzione riguarda sia uffici amministrativi, sia uffici governativi, sia uffici giudiziari. Esso esclude che possano essere fatte discriminazioni sulla base del sesso, ma si riferisce, più in generale, alla libertà di accesso di tutti, senza discriminazioni anche di altro tipo — di età, di razza, di religione ecc.
11 diritto di accesso dei cittadini ai pubblici uffici, oggi esteso ai cittadini della CE, Si collega al principio di uguaglianza, che esamineremo più avanti. Ma costituisce anche un’esplicazione del principio della sovranità popolare, che non tollera che soggetti collettivamente titolari del massimo potere, la sovranità, possano essere esclusi da uffici pubblici.