Audizioni
Parlamentari
AUDIZIONE SULLA RIFORMA DEL DIRITTO SOCIETARIO
Audizione del 20 Settembre 2000
Camera dei Deputati - Commissioni Riunite Giustizia e Finanze
Rappresentanti Confindustria: Stefano Parisi, Antonio Colombo, Marcella Panucci
Sommario
Premessa
1. Princìpi generali
2. La disciplina dei modelli societari
2.1 La società a responsabilità limitata
2.2 La società per azioni
2.3 La società cooperativa
3. La disciplina del bilancio
4. La disciplina dei gruppi
5. Le norme penali in materia societaria
6. La giustizia commerciale
Testo dell'Audizione
16
Osservazioni sulla Riforma del Diritto delle Società
Premessa
La fase di transizione che il nostro sistema economico sta attraversando richiede che la disciplina delle società assecondi le esigenze di cambiamento delle imprese e garantisca loro un quadro di riferimento certo e durevole nel tempo.
Per adempiere a tale funzione essenziale il diritto delle società deve essere snello e flessibile. La semplificazione deve costituire il principio guida del legislatore, il quale deve alleggerire gli adempimenti procedurali che complicano il funzionamento dell'impresa e prevedere, a favore dell'imprenditore, un ampio margine di autonomia nella scelta dei modelli organizzativi più adeguati, lasciando al mercato, in un momento successivo, la valutazione della opportunità ed efficacia delle scelte effettuate.
La sola riforma delle norme di diritto sostanziale potrebbe tuttavia non essere sufficiente. Anche le norme più progredite, infatti, sono inefficaci se non vengono accompagnate da meccanismi di giustizia civile efficienti ed affidabili, in termini sia di competenza tecnica e preparazione specifica degli organi giudicanti, che di rapidità e prevedibilità delle decisioni. Una riforma delle disposizioni di carattere giurisdizionale si impone per garantire alle imprese che l'applicazione delle nuove norme a disciplina delle società non venga inficiata da un sistema giudiziario inadeguato.
* * * * *
1. Princìpi generali.
Le proposte di riforma elaborate dalla Commissione Mirone (DDL 7123) e dal Gruppo di Lavoro dei DS (PDL 6751) riflettono in parte tali necessità.
In particolare, il DDL 7123, nell'individuare all'art. 2 i princìpi cardine della riforma, sottolinea l'esigenza fondamentale di valorizzare il carattere imprenditoriale delle società, riconoscendo una maggiore autonomia agli organi di gestione e ridefinendone compiti e responsabilità, nel senso di una maggiore semplificazione della disciplina e dell'attribuzione di un'ampia autonomia statutaria.
Al contrario, la proposta di legge Veltroni (C-6751) contiene all'art. 2 una serie di affermazioni di principio, tra le quali non vi è alcun riferimento esplicito né all'esigenza di semplificazione, né all'ampliamento degli ambiti dell'autonomia statutaria, se si esclude l'enunciazione relativa all'esigenza di agevolare la costituzione e la gestione delle società e di ridurre i costi di contrattazione e di finanziamento. Ai fondamentali princìpi della semplificazione e dell'autoregolamentazione si fa riferimento in alcune norme del testo, con riguardo però a specifici aspetti della disciplina.
Un'enunciazione di carattere generale delle linee guida della riforma (semplificazione ed autoregolamentazione) è invece necessaria affinché queste costituiscano i primari criteri di riferimento per il legislatore delegato.
2. La disciplina dei modelli societari.
La riforma del diritto delle società deve offrire agli operatori una gradazione di modelli societari rispondenti alle esigenze che si manifestano nei diversi stadi della vita di un'impresa. Un simile approccio è funzionale alla realizzazione di processi di sviluppo e di crescita delle imprese in quanto rende più agevole la trasformazione delle società ed il conseguente passaggio da un modello all'altro. Queste evoluzioni possono avvenire più facilmente là dove non vi siano "scalini" troppo marcati tra un tipo societario e l'altro. Obiettivo che può essere conseguito attraverso una gradazione degli oneri previsti per ciascun tipo societario a seconda delle esigenze di tutela degli interessi di terzi dettate dal ricorso a capitali esterni (intesi come capitali di rischio).
Entrambi i progetti di legge delega non si discostano dall'impostazione generale seguita dal codice civile in materia societaria. Essi prevedono tre modelli per le società di capitali: la società a responsabilità limitata, la società per azioni, con la variante dell'accomandita per azioni, e la società cooperativa. A tali tipi la proposta Veltroni affianca la società per azioni semplificata.
Il sistema rimane pertanto, per motivi di tutela sia dei soci che, soprattutto, dei terzi, chiuso, "tipico": l'esercizio collettivo dell'impresa non è infatti consentito se non attraverso uno dei tipi espressamente disciplinati dalla legge. Approccio che soddisfa soltanto se l'imprenditore viene lasciato libero di scegliere, tra quelli disciplinati, il modello che più si adatti alle necessità della propria attività.
La distinzione tra i modelli previsti viene principalmente ricondotta dalle due proposte normative, sebbene in maniera differente (più marcata in uno, meno nell'altro), a criteri di carattere quantitativo. In particolare, l'art. 3, co. 1, lett. a), della PDL 6751 stabilisce che la SRL dovrà rispondere "alle esigenze proprie delle imprese di piccole e medie dimensioni e con più ristretta base sociale", dove, evidentemente, le dimensioni ed il numero di soci appaiono doversi prendere in considerazione in via cumulativa. Meno rigido e, pertanto, maggiormente condivisibile, è invece l'approccio del DDL 7123, che, pur stabilendo, all'art. 3, co. 1, lett. a), che il tipo SRL si riferisce alle "imprese a ristretta compagine sociale", correttamente chiarisce nella relazione introduttiva che tale modello non è tuttavia obbligatorio per queste ultime. Tale maggiore flessibilità è altresì dimostrata all'art. 4, co. 1, dove le società per azioni vengono identificate con "le imprese a compagine sociale potenzialmente ampia", definizione che lascia aperta la possibilità alle imprese attualmente chiuse di costituirsi sin dall'inizio come SPA, in previsione di un futuro ricorso al mercato dei capitali, senza dover sopportare successivamente i costi di una trasformazione.
Una impostazione basata su parametri di natura esclusivamente quantitativa è inadeguata ed in contrasto con il principio di flessibilità che deve essere alla base della riforma: le dimensioni, nonché l'ampiezza/ristrettezza della compagine sociale non possono costituire gli unici elementi per la scelta di un tipo societario. Se così fosse si precluderebbe ad un numero ristretto di soci o a imprese di piccole o medie dimensioni di adottare il modello della SPA anche qualora questo risultasse più rispondente allo schema organizzativo da essi voluto oppure, di converso, obbligherebbe a costituire in forma di SPA le società di grandi dimensioni o con un numero di soci superiore al limite prestabilito, ma con assetti proprietari stabili, anche nel caso in cui questi non intendano "aprirsi" al mercato.
La distinzione fra i modelli societari e quindi la conseguente gradazione degli obblighi deve invece fondarsi sulla possibilità di accedere al mercato del risparmio con l'emissione di strumenti di partecipazione al rischio d'impresa.
Come accennato, è proprio in tema di SRL che la semplificazione degli adempimenti procedurali, l'autonomia negoziale e la flessibilità delle forme organizzative dovrebbero trovare la massima espressione.
a) Costituzione.
1. Entrambe le proposte opportunamente prevedono l'eliminazione del giudizio di omologazione. Scelta che facilita la costituzione di nuove imprese perché snellisce gli adempimenti procedurali. Una simile previsione deve essere estesa anche alle eventuali successive modifiche dell'atto costitutivo, per le quali il controllo del tribunale sarebbe difficilmente giustificabile. In questo modo verrebbero agevolate, non soltanto le nuove imprese, ma anche quelle esistenti che vogliano modificare l'atto costitutivo per adattare le proprie strutture alle mutate esigenze dei soci e del mercato.
2. Relativamente ai conferimenti, la scelta operata dal DDL 7123 (art. 3, co. 2, lett. c)) di "(…) consentire ai soci di regolare la incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali" è conforme ad un ampliamento dell'autonomia statutaria nelle SRL.
b) Organizzazione interna.
1. Entrambe le proposte di delega riconoscono, più o meno esplicitamente, la possibilità per i soci di sopprimere l'organo assembleare e/o amministrativo. Ciò si traduce in un evidente vantaggio per le imprese che vogliano mantenere una struttura organizzativa snella. Inoltre, una simile previsione può agevolare la crescita di imprese che, costituite in forma di società di persone, possono poi trasformarsi in SRL, beneficiando così dei vantaggi di tale tipo societario (non ultimo quello della responsabilità limitata), senza che ciò comporti una modifica sostanziale degli assetti organizzativi interni.
2. Il problema della tutela delle minoranze necessita con riguardo alle SRL una trattazione differenziata rispetto a quanto avviene per le SPA, per le quali invece il ricorso al mercato legittima la previsione di meccanismi più complessi. È per tale motivo che si ritiene la soluzione proposta dal DDL 7123 più adeguata rispetto a quella prospettata dalla PDL 6751.
L'art. 3, co. 2, lett. e), del DDL 7123, infatti, rinviando all'autonomia contrattuale dei soci la definizione degli strumenti di tutela, nonché la disciplina delle azioni di responsabilità, propone una normativa conforme con le esigenze di flessibilità proprie di una società chiusa. Non può invece condividersi l'impostazione dell'art. 3, co. 2, lett. o), della PDL 6751, che contempla, invece, il riconoscimento, a favore di una minoranza qualificata di soci, del potere di esercitare l'azione sociale di responsabilità. Tale disposizione lascia uno spazio residuale all'autonomia negoziale dei soci, ai quali è concesso soltanto di intervenire per rafforzare la tutela già prevista dalla legge.
c) Forme di finanziamento.
Allo scopo di favorire i processi crescita e la realizzazione di nuove iniziative imprenditoriali, entrambe le proposte correttamente prevedono la possibilità per le SRL di appello indiretto al pubblico risparmio per il collocamento di titoli di debito. Questa previsione è opportuna: l'eliminazione del divieto di emissione di obbligazioni garantisce infatti alle imprese la possibilità di accedere a forme di finanziamento alternative a quello bancario ed avvicina ai capitali esterni, da attingere ovviamente con il vincolo del debito, le imprese con una scarsa vocazione al mercato.
Anche con riguardo alle SPA la riforma dovrebbe prevedere un'ampia semplificazione.
a) Costituzione.
1. Coerentemente con l'esigenza di semplificazione sarebbe opportuno eliminare, in materia di controlli in sede di costituzione, il procedimento di omologazione da parte del tribunale, rinviando il controllo formale sui requisiti dell'atto costitutivo al registro delle imprese, come peraltro già accade in numerosi paesi stranieri. Ciò consentirebbe di agevolare l'adattamento rapido e meno costoso degli schemi organizzativi delle società.
In questo senso si orienta peraltro il DDL 7186 di semplificazione per il 1999, che prevede l'eliminazione della procedura di omologazione per tutte le società di capitali e stabilisce che l'iscrizione della società nel registro delle imprese debba essere richiesta dal notaio contestualmente al deposito dell'atto costitutivo e che il controllo sulla regolarità dell'atto, cui è subordinata l'iscrizione nel registro, debba essere operato dall'ufficio del registro delle imprese.
2. Sempre in tema di costituzione, è da condividere la possibilità prevista dall'art. 5, co. 1, lett. d), della PDL 6751, di consentire la costituzione di SPA da parte di un unico socio, prevedendo adeguate garanzie per i creditori. Questa disposizione è conforme alla XII Direttiva CEE sulle società unipersonali del 1988, che rinviava agli Stati membri la decisione sulla possibilità di costituire SPA unipersonali.
La norma garantisce una certa flessibilità e soprattutto assicura all'imprenditore che intenda far ricorso, in un momento successivo alla costituzione, al capitale di rischio ampliando così la compagine sociale, la possibilità di costituirsi sin dall'inizio in forma di società per azioni, senza dover successivamente sopportare i costi del passaggio da SRL unipersonale a SPA.
b) Disciplina del capitale.
1. Anche la proposta di aumentare l'importo del capitale sociale minimo prevista dall'art. 4, co. 4, lett. d), del DDL 7123 è condivisibile, in quanto quello attualmente previsto dall'art. 2327 cod. civ. necessita di un adeguamento. Tuttavia, l'importo che verrà fissato non dovrà essere tale da scoraggiare le imprese di minori dimensioni ad adottare il tipo della SPA. Una simile impostazione sarebbe infatti contraria ad un approccio che guardi alla sostanza dei fenomeni economici e basa evidentemente la distinzione tra SRL e SPA su presupposti puramente formalistici.
2. Va accolto positivamente il riconoscimento, operato dall'art. 4, co. 4., lett. b), del DDL 7123, della possibilità per le SPA di costituire patrimoni separati destinati ad uno specifico scopo, consentendo l'emissione di strumenti finanziari di partecipazione ad essi. Questa previsione aumenta la flessibilità della disciplina delle società perché consente di limitare la responsabilità della società al patrimonio separato, evitando il ricorso, e quindi la proliferazione, di società costituite per la realizzazione di un determinato affare.
Tuttavia, affinché questa norma sia efficace, occorre che la disciplina sia improntata alla semplicità: la creazione del patrimonio dovrebbe poter avvenire con semplice decisione della società, non soggetta quindi a forme di verifica o approvazione di enti burocratici esterni; l'autonomia patrimoniale dovrebbe poi essere piena e quindi non dovrebbero essere previste responsabilità patrimoniali solidali (neppure in via sussidiaria) gravanti sul restante patrimonio della società.
c) Disciplina dei conferimenti.
In tema di conferimenti, i princìpi indicati dall'art. 4, co. 5, lett. a) e b), del DDL 7123 sono condivisibili e preferibili rispetto alle corrispondenti indicazioni dell'art. 5, co. 1, lett. d) ed e), della PDL 6751.
d) Disciplina delle azioni.
È positivo l'ampliamento della tipologia degli strumenti finanziari che le SPA possono emettere; tale aspetto aumenta le possibilità di raccolta di capitali sul mercato.
e) Organizzazione interna.
Anche per le SPA si reputa opportuna la previsione di una maggiore libertà a favore dei soci nella configurazione delle strutture organizzative interne, nonché dei processi decisionali, ferma restando l'esigenza di un nucleo di norme di carattere suppletivo e dispositivo che intervengano nel caso di assenza di apposite previsioni statutarie o nel caso di conflitti tra soci.
1. È condivisibile l'orientamento del DDL 7123 che, in tema di assemblee, è improntato ad una semplificazione degli adempimenti di carattere procedurale e di pubblicità. A questo proposito potrebbe costituire un'utile previsione quella che, nel caso di società che attualmente non raccolgano capitali di rischio, consentisse ai soci di introdurre negli statuti particolari disposizioni relativamente alla formazione delle delibere assembleari (si pensi, ad esempio, alla possibilità di derogare al principio dell'unità di luogo).
2. Quanto alla disciplina dei patti parasociali non si ritiene necessario, né opportuno, estendere anche alle società non quotate o con titoli diffusi lo stesso regime di pubblicità previsto dal T.U.I.F. per le società quotate, seppure con l'eccezione della pubblicazione sulla stampa e la comunicazione alla Consob, in quanto non vi sarebbe in questo caso un'uguale esigenza di informazione dei risparmiatori. Va pertanto rigettata la proposta contenuta nell'art. 6, co. 2, lett. i) della PDL 6157, che è ingiustificata in mancanza di un effettivo ricorso al mercato.
In tema di durata dei patti, si ritiene inadeguata la previsione di un limite per legge. Se ciò avvenisse, infatti, gli assetti di controllo della società verrebbero modificati "artificialmente", cioè indipendentemente dalla valutazione che il mercato dia della loro efficienza, in seguito al decadere del patto. Comunque, qualora un limite di durata venisse stabilito, occorrerebbe concedere ai contraenti la possibilità di rinnovare i patti. In alternativa al termine di durata potrebbe prevedersi un diritto di recesso dal patto a favore di ciascun contraente previo preavviso.
3. Riguardo alla disciplina dell'amministrazione e dei controlli sull'amministrazione, la proposta Mirone riconosce alle imprese la possibilità di scegliere tra una struttura basata su consiglio di amministrazione/collegio sindacale (modello italiano) ed una invece fondata, secondo il modello tedesco, su comitato di gestione/comitato di sorveglianza. Accanto a queste due ipotesi, la proposta Veltroni introduce anche la possibilità di optare per il modello anglosassone, con un comitato di audit al posto del collegio sindacale.
Le due proposte delineano diversamente il c. d. modello tedesco. Mentre, infatti, la proposta 6751 (art. 7, co. 1, lett. b)) configura il comitato di sorveglianza come organo di "alta amministrazione", con compiti di controllo sul comitato di gestione, la proposta 7123 (art. 4, co. 8, lett. d)) si discosta dal modello tedesco vero e proprio, avvicinando le funzioni dell'organo di sorveglianza a quelle di controllo proprie del collegio sindacale e rimettendo agli statuti la possibilità di indicare le funzioni di indirizzo strategico della società, eventualmente rivedendo a tal fine le funzioni dell'assemblea (si ipotizza così uno spostamento di talune non meglio identificate competenze dall'assemblea al comitato di sorveglianza). L'avvicinamento delle funzioni del comitato di sorveglianza a quelle proprie del collegio sindacale è dimostrato altresì dalla previsione della rappresentanza delle minoranze attualmente stabilita a carico delle SPA quotate dall'art. 148 T.U.I.F.
La possibilità di adottare il modello tedesco suscita perplessità perché potrebbe comportare (se si utilizzasse la clausola di facoltatività prevista dalla PDL 6751), l'introduzione di meccanismi estranei al nostro ordinamento, quale ad esempio la rappresentanza dei lavoratori, che rischierebbero di appesantire in maniera eccessiva i processi decisionali. Ciò potrebbe soprattutto accadere se la scelta fosse indotta non tanto da considerazioni di efficienza organizzativa quanto da una valutazione di altri eventuali benefici (ad esempio fiscali o contributivi) che potrebbero essere successivamente ricollegati all'adozione di un modello di cogestione.
Non suscita gli stessi problemi la possibilità di optare per il modello anglosassone perché la costituzione di comitati di audit non è del tutto estranea al nostro ordinamento (adeguandosi alle disposizioni del Codice di Autodisciplina in materia di corporate governance, nonché alle più evolute prassi internazionali, le maggiori società quotate italiane hanno già istituito comitati di audit). Un simile modello consentirebbe peraltro, attraverso l'eliminazione del collegio sindacale, di semplificare il sistema dei controlli, che risulta attualmente, considerate sia le previsioni normative che quelle del Codice di Autodisciplina, estremamente articolato soprattutto per le società quotate (comitato di audit, soggetti preposti al controllo interno, collegio sindacale e società di revisione).
f) Tutela delle minoranze.
L'art. 9 della PDL 6751 prevede una serie di disposizioni estremamente vincolanti a tutela delle minoranze.
1. L'estensione in alcuni casi anche alle SPA non quotate di una serie di obblighi introdotti dal T.U.I.F. a carico delle SPA quotate. Ci riferiamo, in primo luogo, alla disciplina dell'azione di responsabilità degli amministratori. Tale estensione non può ritenersi giustificata per le SPA che non facciano ricorso al mercato dei capitali. Essa, infatti, rafforzando il profilo repressivo, è suscettibile di determinare un aumento del numero delle potenziali azioni giudiziarie nei confronti della società, con conseguenti frequenti interferenze del potere giudiziario nella vita delle aziende.
2. È altresì eccessiva la previsione di cui al co. 1, lett. a), dell'art. 9, che prevede l'abbassamento dal 20% al 5% delle percentuali di capitale sociale previste dall'art. 2367 cod. civ. per convocare l'assemblea.
Questa disposizione è anche più stringente rispetto a quanto stabilito dal T.U.I.F., che riconosce tale potere ai soci che rappresentino almeno il 10% del capitale sociale, lasciando all'atto costitutivo la possibilità di stabilire percentuali inferiori. L'impostazione della PDL 6751 è ingiustificata e potrebbe dar luogo ad abusi (eccesso di convocazioni) da parte delle minoranze con un conseguente dispendio di costi per le società. Tra l'altro, si ricorda, l'art. 125 T.U.I.F. stabilisce che gli amministratori possano, in considerazione degli argomenti da trattare e valutato l'interesse della società, decidere di non procedere alla convocazione, disposizione opportuna volta a limitare un esercizio abusivo dello strumento, che manca invece nella PDL 6751.
g) Diritto di recesso.
La regolamentazione del recesso costituisce un passaggio delicato della disciplina delle società. Infatti, se da un lato appare corretto concedere al socio il diritto di recedere nei casi in cui l'atto costitutivo subisca modifiche tali da variare in modo sostanziale l'obbligazione sociale, dall'altro non si può ignorare il fatto che il recesso dei soci può costituire un freno alle attività della società, determinando effetti negativi sull'ordinaria gestione attraverso un impoverimento del patrimonio sociale.
In funzione di tali considerazioni, non pare opportuno ampliare ulteriormente le ipotesi in cui il recesso è ammesso.
Una soluzione alternativa a tutela dei diritti del socio nei casi di conflitto insanabile o nelle situazioni di pregiudizio potrebbe invece essere costituita dalla previsione a livello statutario di un diritto di liquidazione della quota a favore del socio dissenziente, con correlativo diritto di acquisto a favore degli altri soci.
2.3 La società cooperativa.
(Art. 12 PDL 6751 – Art. 5 DDL 7123)
Le disposizioni di entrambe le proposte, che non si discostano nella sostanza, confermano la tendenza ormai assai diffusa ad accentuare il ruolo della cooperativa quale impresa capitalistica, allontanandola ulteriormente dai principi originari di mutualità (attività rivolta prevalentemente ai soci e precisi limiti nella formazione e distribuzione degli utili) stabiliti dalla Costituzione e successivamente ripresi dallo stesso legislatore ordinario.
Questa tendenza determina il rischio di perpetuare ed accentuare ingiustificatamente la posizione di vantaggio concorrenziale di cui già beneficiano oggi le società cooperative (si pensi ai vantaggi fiscali rispetto alle società di capitali), specialmente quelle di maggiori dimensioni, che operano sul mercato in aperta competizione con le altre imprese.
1. Le proposte di estendere alle società cooperative le norme relative alle società per azioni ed a responsabilità limitata, a seconda della loro capacità o meno di coinvolgere un elevato numero di soggetti, non fa che assottigliare il già labile limite che distingue il modello cooperativo dalla società capitalistica, soprattutto in presenza di tutti gli elementi che fino ad oggi hanno caratterizzato le distorsioni concorrenziali tra imprese e cooperative.
Si pensi, tra le altre, alle alterazioni derivanti da differenziazioni del costo del lavoro nella medesima attività, in relazione alle quali sarebbe opportuno intervenire attraverso l'adozione di misure correttive, finalizzate soprattutto a parificare gli oneri contributivi e retributivi tra imprese e cooperative. Le stesse considerazioni valgono con riguardo alla proposta di consentire alle società cooperative l'emissione di strumenti finanziari, raccogliendo così capitale di rischio in aperta (distorta, vista la posizione di vantaggio) concorrenza con le società di capitali.
Nell'ambito di una riforma del diritto delle società, il cui intento sia quello di razionalizzare e semplificare la disciplina dei vari modelli societari, andrebbe piuttosto puntualmente riaffermato e ridefinito lo scopo mutualistico delle società cooperative al fine di individuare i soggetti che effettivamente perseguono tale obiettivo e che, quindi, possono legittimamente beneficiare delle vigenti agevolazioni di carattere fiscale e previdenziale. Parallelamente, dovrebbero essere previste limitazioni alle attività cooperative rivolte a soggetti terzi.
2. In tema di vigilanza sulla cooperazione costituzionalmente riconosciuta, entrambe le proposte di legge delega demandano al legislatore delegato di definire la cooperazione protetta e di predisporre i relativi strumenti di vigilanza, valorizzando anche le funzioni di autoregolamentazione delle associazioni di categoria.
Il sistema di vigilanza ipotizzato non si discosta, sostanzialmente, da quello disciplinato in passato. Questo tipo di vigilanza ha però tradizionalmente favorito abusi, in quanto l'organismo cui esso viene deputato manca dell'indipendenza ed imparzialità (condividendo gli interessi del soggetto controllato) necessarie per garantire che le imprese non perseguenti lo scopo mutualistico non si avvantaggino dei benefici previsti per le cooperative protette. Ciò aggrava il rischio che società cooperative che non perseguono lo scopo mutualistico, come quelle che, adottando la forma tipica di una società di capitali, facciano ricorso al mercato dei capitali, beneficino ingiustificatamente delle deroghe stabilite a favore della cooperazione protetta.
Sul problema analizzato sopra si veda il parere pro veritate del Prof. Avv.Antonio Baldassarre.
3. La disciplina del bilancio.
È positiva la previsione volta ad eliminare le interferenze sul bilancio civilistico dalla disciplina dettata dal legislatore fiscale in materia di reddito d'impresa. Analogo giudizio vale per l'ampliamento delle ipotesi di redazione del bilancio in forma abbreviata.
4. La disciplina dei gruppi.
Per quanto riguarda i gruppi, la cui importanza e vitalità per l'economia è superfluo sottolineare, il DDL 7123 si limita a delineare i princìpi informatori (trasparenza dei legami di gruppo e degli assetti societari) per l'intervento del legislatore delegato, senza ipotizzare una specifica disciplina del fenomeno. La PDL 6751 invece si orienta verso una disciplina specifica che segue l'approccio degli ordinamenti tedesco e portoghese.
Pur ritenendo essenziale riconoscere a livello legislativo l'esistenza di un interesse di gruppo, sembra al momento inopportuna l'introduzione di una disciplina specifica in materia.
È essenziale che i rapporti di gruppo ed il ruolo di guida della società madre siano tenuti in considerazione in quanto elementi distintivi e caratterizzanti una determinata, complessa realtà imprenditoriale, ciò che dovrebbe portare ad una semplificazione e ad un coordinamento degli adempimenti e dei controlli. Così come è importante che tali rapporti vengano adeguatamente pubblicizzati, garantendo un alto livello di informazione e trasparenza.
Non è invece opportuna una regolamentazione che, sulla base del modello tedesco, configuri unitariamente il gruppo. Una simile impostazione sarebbe infatti suscettibile di introdurre elementi di rigidità, conducendo ad effetti sotto taluni aspetti aberranti (si pensi alle conseguenze in tema di responsabilità patrimoniale per le obbligazioni assunte da una delle società appartenenti al gruppo, piuttosto che alla responsabilità in tema di rapporti di lavoro con particolare, ma non esclusivo, riguardo alla disciplina dei licenziamenti).
5. Le norme penali in materia societaria.
In questo campo andrebbero rispettati i principi di determinatezza, di precisione della fattispecie, di offensività e di personalità della responsabilità penale. Andrebbe poi riaffermato il principio della sanzione penale come extrema ratio, circoscritta a casi eccezionali e strettamente connessa alla valutazione delle caratteristiche dell'illecito commesso dall'imprenditore, alle sue finalità ed alla diffusività del danno da esso derivante. Occorre infatti avere presente il danno che l'azione penale di per sé comporta per l'impresa, in termini di immagine e di valore. Inoltre, sarebbe necessario eliminare le fattispecie penali relative a comportamenti efficacemente sanzionabili in via amministrativa, limitando la sanzione penale ai soli casi in cui vi sia un bene di rilevanza pubblica da tutelare.
La proposta elaborata dalla Commissione Mirone allo stesso tempo configura nuove ipotesi di reato e ne amplia talune già presenti nel nostro ordinamento.
1. Con riguardo al reato di falso in bilancio, l'art. 10 del DDL Mirone, conformemente ai princìpi di determinatezza, precisione ed offensività della fattispecie penale, propone una diversa configurazione del reato, trasformandolo da reato di pericolo astratto in reato di danno (per cui il reato non sussiste in assenza di un danno). Inoltre, l'elemento soggettivo non è più inteso soltanto come volontà di trarre in inganno, ma anche e soprattutto come volontà di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto. La norma, infine, correttamente precisa che il falso deve riguardare i bilanci, le relazioni o le altre comunicazioni sociali "dirette ai soci o al pubblico", escludendo in tal modo la rilevanza di eventuali falsità in documenti meramente interni della società.
Questa impostazione modifica sostanzialmente la disciplina attualmente prevista dall'art. 2621 cod. civ., che, nel sanzionare il reato di falso in bilancio non fa alcun riferimento all'eventualità che il fatto abbia causato un danno, configurando la fattispecie come reato di pericolo. La norma, inoltre, ritiene sufficiente la volontà del soggetto di determinare un errore circa la effettiva situazione patrimoniale della società e non invece la volontà di arrecare un danno. Questa configurazione del reato e, soprattutto, l'interpretazione giurisprudenziale che ne è seguita, hanno fatto sì che venissero condannati e puniti anche comportamenti non idonei a causare un danno (si pensi ai c. d. falsi lievi o, addirittura, a quelli determinati dall'adozione di diversi princìpi contabili).
Tuttavia, sebbene migliorativa rispetto all'attuale configurazione del reato, la proposta dovrebbe ancorare la rilevanza del falso a parametri quantitativi, prevedendo la sussistenza del reato soltanto in presenza di un'effettiva lesione dell'interesse protetto. In altre parole, le informazioni false o occultate dovrebbero essere informazioni "rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene" L'emendamento era stato proposto da Banca d'Italia e Ministero del Tesoro.. Una simile impostazione consentirebbe di escludere la rilevanza dei falsi di lieve entità. In questo caso potrebbe ipotizzarsi, al fine di stabilire dei parametri che consentano di individuare quando il falso non sia rilevante, l'adozione di criteri in termini percentuali.
È opportuno infine l'inserimento nella norma sul falso in bilancio di una disposizione che raccordi la disciplina penalistica del falso con quella prevista in materia tributaria, allo scopo di risolvere i vari contrasti insorti in giurisprudenza sulla sussistenza di un concorso o di un rapporto di specialità fra art. 2621 cod. civ. e norme tributarie. Spetterà così al legislatore delegato di chiarire, secondo il criterio di specialità, che una eventuale omessa o carente dichiarazione, sanzionabile dal punto di vista tributario, non dovrà essere considerata falso in bilancio o falsa comunicazione sociale.
2. Il DDL Mirone propone la responsabilità amministrativa delle società per i reati previsti dall'art. 10, co. 1, lett. a) e b), commessi dagli amministratori, direttori generali, liquidatori nell'interesse della società stessa. La norma prevede l'applicabilità alla società di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Questa forma di corresponsabilità della società trova già una prima affermazione nel nostro ordinamento nella legge di ratifica della Convenzione dell'OCSE sulla corruzione (la quale tuttavia non imponeva agli Stati contraenti che già non prevedessero la responsabilità delle persone giuridiche di introdurla nel proprio ordinamento) ed è ripresa nel progetto di riforma del Codice Penale. Tuttavia, è opportuno delimitare le sanzioni comminabili, escludendo quelle suscettibili di incidere in maniera pesante ed irreparabile sull'attività di impresa (si pensi all'esclusione dalle gare di appalto o dalla contrattazione con la pubblica amministrazione o al divieto di pubblicizzare i propri beni o servizi oppure, ancora, alla chiusura di stabilimenti o alla revoca di licenze o concessioni). Tali meccanismi sanzionatori potrebbero danneggiare le imprese destinatarie determinando irreparabili situazioni di crisi.
3. L'introduzione di una norma generale sulle infedeltà patrimoniali degli amministratori di società colma una lacuna da sempre lamentata. Tale norma correttamente stabilisce che il profitto non si considera ingiusto (quindi il fatto non costituisce reato) se esso è compensato da un vantaggio per una società collegata o appartenente allo stesso gruppo.
4. La proposta Mirone mira ad introdurre nel nostro ordinamento una nuova fattispecie di reato: la corruzione tra privati.
Si tratta di una disposizione che solleva notevoli dubbi. Infatti, conformemente al principio che configura la sanzione penale come extrema ratio, l'intervento penale andrebbe limitato alle sole ipotesi in cui vi sia un interesse pubblico da tutelare. Nel caso in esame, invece, l'interesse da tutelare è meramente privatistico: l'interesse della società a non subire un danno (la norma parla infatti di "pericolo di nocumento per la società") a seguito di comportamenti colposi o dolosi dei propri amministratori, direttori generali, ecc.
Questo interesse potrebbe essere tutelato molto più efficacemente da un punto di vista civilistico attraverso la previsione di un indennizzo a carico del soggetto colpevole volto a risarcire la società del danno subito. Anche la previsione di codici etici interni alla società potrebbe costituire un mezzo valido per arginare comportamenti scorretti da parte dei dipendenti.
Nella legge delega dovrebbero anche essere stabiliti criteri idonei ad individuare i soggetti realmente responsabili dell'illecito. Il comportamento di un singolo amministratore o sindaco, ad esempio, non dovrebbe ripercuotersi sugli altri componenti del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale.
Infine, si ritiene che dovrebbe essere espresso con chiarezza il principio che vale anche dal punto di vista civilistico, secondo il quale i giudici non possono entrare nel merito delle scelte gestionali compiute dagli amministratori, sempre che gli amministratori abbiano agito correttamente, assumendo le necessarie informazioni e precauzioni (c. d. business judgement rule).
6. La giustizia commerciale.
La persistente crisi della giustizia nel nostro paese ostacola l'ottenimento di una rapida composizione dei conflitti che insorgono fra le imprese o fra queste ed altri soggetti (privati cittadini, Pubbliche Amministrazioni, ecc.) ed inficia l'incisività della tutela giurisdizionale. Inoltre, le ormai note carenze di organico e la mancanza di una preparazione specifica di buona parte dei magistrati nelle materie commercialistiche sono causa di decisioni spesso inadeguate alle dinamiche imprenditoriali.
1. In questa prospettiva l'istituzione di sezioni specializzate e la concentrazione della competenza in materia commerciale presso i tribunali delle città sedi di corti di appello, nonché il potenziamento e lo sviluppo di metodi alternativi a quello giurisdizionale di risoluzione delle controversie, quali la procedura arbitrale, entrambi previsti dall'art. 11 del DDL 7123, potrebbero costituire una soluzione efficace.
Molti paesi stranieri hanno già istituito nei loro ordinamenti giudiziari veri e propri tribunali specializzati o anche sezioni o collegi specializzati nelle materie commerciali nell'ambito dei tribunali ordinari. Tali esperienze hanno, nella gran parte dei casi, prodotto buoni risultati, consentendo un migliore (più rapido ed efficace) trattamento delle controversie inerenti a materie estremamente specialistiche, quali il diritto delle società, il diritto fallimentare, le materie bancarie e finanziarie e la disciplina della proprietà intellettuale e della concorrenza, con benefici sia in termini economici per i titolari dei diritti violati, che di certezza giuridica e di corretta interpretazione ed applicazione dei princìpi di diritto che regolano tali materie.
Tra l'altro, in alcuni casi, la stessa Unione Europea ha imposto agli Stati Membri di designare un numero ridotto di tribunali specializzati (nel senso di tribunali costituiti ad hoc o, considerati i limiti costituzionali vigenti in alcuni paesi tra i quali l'Italia, di sezioni specializzate presso i tribunali). Si pensi alla Convenzione di Lussemburgo sul Brevetto Comunitario, in attuazione della quale l'Italia aveva designato con legge 26 luglio 1993, n. 302, sezioni specializzate presso alcuni tribunali e corti d'appello competenti per la trattazione delle controversie sul brevetto comunitario I tribunali e le corti, indicati nel Protocollo allegato alla Convenzione erano i Tribunali e le Corti di Appello di Torino, Milano, Bologna, Roma, Bari, Palermo e Cagliari.. La Convenzione, tuttavia, non essendo stata ratificata da alcuni Stati membri, non è mai entrata in vigore, e quindi i Tribunali designati non hanno mai svolto le funzioni loro assegnate dalla legge.
La stessa via è stata seguita nel 1993 quando, al momento dell'adozione del Regolamento sul marchio comunitario, il legislatore europeo ha imposto agli Stati Membri di designare un numero "per quanto possibile ridotto" di Tribunali nazionali di prima e seconda istanza denominati "Tribunali dei Marchi Comunitari" competenti in materia di azioni di contraffazione, accertamento di non contraffazione, decadenza e nullità dei marchi comunitari L'art. 91 del Reg. 40/94 del 20 dicembre 1993 (in G.U.C.E. L11, del 14 gennaio 1994) prescrive che "1. Gli Stati Membri designano nei rispettivi territori un numero per quanto possibile ridotto di tribunali nazionali di prima e di seconda istanza, qui di seguito denominati "tribunali dei marchi comunitari" che svolgeranno le funzioni ad essi attribuite dal presente regolamento. 2. Ogni Stato Membro comunica alla Commissione entro tre anni dall'entrata in vigore del presente regolamento un elenco dei tribunali dei marchi comunitari con l'indicazione della loro denominazione e competenza territoriale"..
L'Italia tuttavia non ha ancora dato attuazione a tale disposizione del Regolamento Il 15 maggio 1998 il Ministro di Grazia e Giustizia aveva presentato un Disegno di legge (n. C-4885) di attuazione dell'art. 91 del Regolamento sul marchio comunitario, che stabiliva che alle sezioni specializzate di nuova costituzione dovessero essere destinati magistrati con un'esperienza in materia di marchi e brevetti e che alle sezioni medesime potessero essere attribuiti anche altri affari civili, oltre quelli di diritto industriale comunitario, purché ciò non pregiudicasse la rapida trattazione di questi ultimi. Il DDL in questione, però, non è ancora stato approvato, per cui, nonostante il grande ritardo rispetto al termine fissato dalla Comunità Europea, l'Italia non ha dato alcuna attuazione alle disposizioni di carattere giurisdizionale previste nel regolamento comunitario.. Anche nel progetto di Regolamento sui disegni e modelli comunitari viene previsto, all'art. 84, che gli Stati Membri dovranno designare, entro tre anni dall'entrata in vigore del Regolamento i tribunali dei disegni e modelli comunitari, competenti in tema di violazione e validità delle privative.
L'istituzione di sezioni specializzate si rende altresì necessaria in vista del processo di riforma del diritto della concorrenza comunitario avviato con il Libro Bianco della Commissione nel 1999, che si fonda su un'applicazione decentrata delle norme di diritto comunitario della concorrenza (artt. 81 e 82 del Trattato CE) da parte sia delle autorità nazionali della concorrenza che dei giudici ordinari. Una simile riforma, una volta attuata, attribuirà la competenza ad applicare integralmente le norme del Trattato a giudici che non hanno gli strumenti adatti per compiere le complesse analisi di mercato sottostanti alle indagini antitrust (si pensi che sia l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che la Direzione Generale Concorrenza della Commissione hanno interi dipartimenti che si dedicano a tali attività).
In considerazione dei motivi esposti, la previsione dell'art. 11 del DDL 7123 va sostenuta. Essa andrebbe anzi ampliata per ricomprendere tra le materie di competenza delle sezioni specializzate anche il diritto d'autore, che tradizionalmente rientra, insieme ai marchi, brevetti e disegni, nella nozione di proprietà intellettuale e nei confronti del quale sussistono le medesime esigenze di razionalizzazione e di tutela esistenti in materia di brevetti e marchi.
2. Anche le disposizioni volte all'abbreviazione dei giudizi sono condivisibili e non pongono problemi di tutela degli interessi delle parti, in quanto viene sempre fatto salvo il principio del contraddittorio e, nel caso di giudizio monocratico, è riconosciuta la possibilità di reclamo contro la pronuncia del giudice davanti ad un organo collegiale, mentre nel caso del giudizio sommario non cautelare non è esclusa la possibilità di instaurare successivamente un giudizio di merito, la decisione del giudice in questo caso è, come per i procedimenti cautelari, immediatamente esecutiva e non passa in giudicato.
|