Proprietà e controllo della ricchezza.

 

La società per azioni del XIX secolo si era basata sul principio della sovranità assembleare: i soci assommavano in sé, riuniti in assemblea, tutti i poteri sociali, compresi quelli relativi all’esercizio dell’impresa; gli amministratori erano, per contro, semplici esecutori delle deliberazioni assembleari, ai quali potevano essere imposte direttive e impartiti ordini su ogni atto di gestione della società. In Italia (art. 157 cod. comm. 1882), come già in Gran Bretagna (art. 44 Companies Act del 1872) e in Belgio (art. 61 legge 18 maggio 1873), si era anche cercato di dare spazio alle minoranze con la norma secondo la quale l’azione ha un voto ogni cinque azioni, ma «per quelle che possiede oltre il numero di cento ha un voto ogni venticinque azioni». L’espressione «democrazia azionaria», che è stata coniata per rappresentare il modello ottocentesco di società per azioni, esprimeva in modo adeguato le analogie che nel secolo scorso si erano stabilite fra la costituzione dello Stato e quella della società per azioni, fra la democrazia politica e la democrazia economica. La filosofia politica, che predicava una classe politica sottoposta al giudizio dell’elettorato, si coniugava con una filosofia economica che esigeva una classe imprenditoriale sottomessa al giudizio delle assemblee degli azionisti e, più in generale, al «giudizio di mercato», espresso da una moltitudine di grandi e piccoli risparmiatori nelle quotidiane contrattazioni della borsa, sede di un controllo sociale sulla conduzione delle imprese.

Nel corso del XX secolo si delinea, per contro, il fenomeno cui la sociologia ha dato il nome di «rivoluzione manageriale>’, e che aveva già manifestato i primi embrioni e trovato i primi teorici nella seconda metà del secolo scorso. È il fenomeno variamente descritto come quello della «separazione fra proprietà e funzione del capitale» — così, già nel secolo scorso,Marx — o come quello della «dissociazione fra proprietà e controllo della ricchezza»: così nel XX secolo, uno stuolo di autori, da Berle a Galbraith.

Il fenomeno riguarda, inizialmente, le grandi società, con azioni disseminate fra un grande pubblico di azionisti e prive di una stabile maggioranza; poi si diffonde a misura che la direzione della grande impresa assume, con la crescente complessità dei problemi ad essa relativi, più marcati caratteri di alta professionalità. Gli amministratori tendono ad affrancarsi dalla direzione e dal controllo degli azionisti, a presentarsi come una «tecnostruttura» che si autocoopta e che si fa arbitra, a propria discrezione, delle sorti dell’impresa.

Nel continente europeo la legislazione del XX secolo, a cominciare dalla legge azionaria tedesca del 1937, ha formalmente ripudiato il principio ottocentesco della sovranità assembleare.

L’assemblea degli azionisti è esautorata: la sua competenza, da illimitata che era, diventa una competenza «speciale», circoscritta a specifici oggetti, dai quali esula la gestione dell’impresa sociale; mentre è «generale» la competenza dell’organo amministrativo. E l’esautoramento dell’assemblea raggiungerà l’estremo limite in Olanda, dove la riforma del 1971 priva l’assemblea persino del potere di nominare gli amministratori, cui è dato di autocooptarsi periodicamente, su semplice proposta dall’assemblea.

Il processo riformatore avviato dalla legge tedesca del 1937 prendeva origine dalle idee di Rathenau ( La realtà delle società per azioni, in Riv. soc., 1960, p. 918 ss): la società per azioni non deve agire per realizzare l’interesse egoistico dei soci, l’aspirazione dei capitalisti al profitto; ma deve agire per realizzare un interesse trascendente da quello dei soci e identificabile nell’interesse dell’«impresa in sé»: nell’interesse cioè, alla efficienza produttiva dell’impresa sociale. Questo superiore interesse, di fronte al quale l’interesse dei soci al profitto deve cedere, viene presentato poi come un interesse proprio dell’intera collettività nazionale o, addirittura, della stessa umanità, giacché la prosperità collettiva, e lo stesso progresso economico dell’umanità, viene fatta dipendere dall’efficienza produttiva delle imprese.

Al Rathenau viene solitamente attribuita una frase, divenuta poi emblematica: quella secondo la quale «scopo della società di una società di navigazione fluviale] non è di ripartire utili fra gli azionisti, ma è di far navigare i battelli sul Reno»