La manovra spiegata da Pareto
 

«Che giudizio dare dei provvedimenti del nuovo governo?», così, con una domanda molto elementare per un complesso economista, Vilfredo Pareto iniziava uno dei suoi articoli di commento alla situazione economica dei primi del Novecento. Lo studioso italiano, autore del Cours d'économie politique (1896), giudicato da tutti i posteri un classico del pensiero economico, scriveva su «L'Economista», rivista da lui animata e che ricalcava il modello britannico dell'«Economist» e da quelle colonne amava associare alla rigida analisi scientifica l'attività di polemista e commentatore dei fenomeni sociali. La domanda iniziale, posta in un gioco retorico, per lo stesso Pareto non aveva un grande senso, perché la qualità di un'azione di governo non è solo nel valore oggettivo dei provvedimenti che si assumono ma è soprattutto nella credibilità delle classi dirigenti. È il cuore della «teoria delle élite» dove lo studioso mette a nudo le dinamiche di potere e ricchezza, circolazione e decadenza delle classi dominanti. Idee che troveranno una composizione sistematica nelle duemila pagine del Trattato di sociologia generale.
Passando dalla teoria alla pratica già in un altro saggio, L'Italie économique, che, nel 1891, era apparso su la «Revue des deux mondes», aveva parlato di confusione delle idee, dissoluzione dei partiti, perché «gli interessi materiali hanno preso il sopravvento». Pareto giunge a paragonare il sistema politico italiano a quello «tristement célebre de Walpole» nell'Inghilterra settecentesca. Conclusioni che colpirono il collega austriaco Joseph A. Schumpeter che osserva come l'economista italiano con qualche eccesso «non vedeva altro che incompetenza e corruzione», anche se gli riconosce che critica «con imparzialità feroce i governi che si succedevano», coerente con la sua visione di ultraliberale.
Ingegnere, proveniente da rigorosi studi matematici che lo porteranno al teorema «ottimo paretiano» e alle «curve di indifferenza», fondatore della «Società Adam Smith», uomo dai «molteplici interessi», come lo ha definito John Kennet Galbraith, capace di affascinare il giovane Luigi Einaudi, Pareto ha formulato teorie con cui tutto il pensiero economico si è dovuto misurare. Con un'impressionante attualità, soprattutto, immette nell'analisi economica elementi sociali capaci di cogliere i connotati della modernità. L'Italia dei primi del Novecento è nel pieno del processo d'industrializzazione e procede a passi spediti verso il rango di potenza manifatturiera ma la rivoluzione economica s'accompagna a una diffusa insoddisfazione verso il ceto politico. Questi sono anche gli anni in cui Vilfredo Pareto intraprende un proficuo carteggio con John Maynard Keynes, più giovane di lui ma già direttore dell'«Economic Journal».
Sulla rivista «Il Regno», Giuseppe Prezzolini presenta le teorie paretiane e il suo giudizio sulla classe dirigente italiana in un lungo articolo, «L'aristocrazia dei briganti» (1903), è una delle prime volte in cui il termine «casta» è associato alla politica. «Noi ci troviamo d'accordo con lui; nel disprezzo cioè», scrive il fondatore della «Voce», «per tutta quella parte di classe dominatrice che paurosa, imbelle, atrofizzata per l'inerzia... suicida di paura». A Prezzolini rispose lo stesso Pareto con un altro scritto, «La borghesia può risorgere?». L'aristocrazia dirigente non è la risultante di un sistema di valori, basati su qualità morali ma è solo un gruppo di potere che in quel momento storico dispone degli strumenti per imporsi.
Nell'elaborare il tema cruciale di ogni teoria politica, quello del rapporto fra individuo e Stato, Pareto sposa il realismo storico, sulla linea di Machiavelli, Tocqueville ma anche di Croce, temendo la dittatura della maggioranza che spesso sfocia nella plutocrazia demagogica. Nel Trattato di sociologia generale esamina le dinamiche che determinano la crescita del debito pubblico per concludere che esso lievita quando il governo è instabile, sede di interessi contrastanti, per cui pur di reggere è costretto a un continuo scambio di favori con i gruppi sociali. Quando il corpo politico è compromesso, «si può tagliare sicché si vuole la gramigna ma essa ritorna a crescere rigogliosa se rimane incolume la radice». Di qui il timore che la democrazia possa trasformarsi in «una feudalità in gran parte economica», dove è marcata la tendenza a governare con l'astuzia. La guerra di Libia del 1911 non fu altro che un costoso cedimento alla demagogia sciovinista in nome del consenso.
Pareto non si rivolge quasi mai ai singoli, non cita persone ma non risparmia i toni. Sul banco degli imputati non c'è solo la casta politica ma le vaste connivenze «delle pseudo-cooperative, l'indisciplina degli impiegati dello Stato e dei Comuni e di una parte non trascurabile degli operai». Eppure, nonostante le critiche alla classe dirigente, Pareto è sempre più un assertore del libero mercato e del ruolo della borghesia imprenditoriale, convinzioni che gli valsero la definizione di «Karlo Marx della borghesia».
Dopo due tentativi falliti di entrare in Parlamento, deluso dall'Italia, abbandonò il pur remunerato ruolo di direttore generale della Società delle Ferriere e accettò la chiamata alla cattedra di economia politica dell'Università di Losanna, dove animò una scuola economica destinata a fama mondiale.